Mariella Enoc è fra le manager più esperte e stimate dentro e fuori i nostri confini. Dopo gli studi classici e una laurea in medicina è rimasta nel settore sanitario: fin da subito, infatti, si è occupata della gestione di strutture sanitarie di quasi tutta Italia.
Passata dal Cottolengo di Torino, Fondazione Clini e Cariplo in qualità di vicepresidente, anche presidente di Confindustria Piemonte, la Santa Sede le ha affidato la presidenza dell’Ospedale del Papa, l’Irccs Ospedale Bambino Gesù di Roma, nel 2013, incarico che ha lasciato dopo 10 anni di attività, attualmente all’Ospedale Valduce – Villa Beretta a Como come Procuratore Speciale. Non solo: è stata anche insignita della laurea honoris causa dall’Università del Piemonte Orientale lo scorso anno. Una carriera illustre e un esempio per ogni altro manager sanitario.
“Non dobbiamo guardare solo alle pecche del nostro Ssn, ma anche alle sue qualità, che lo rendono tuttora uno dei migliori al mondo”, ha commentato. E ha aggiunto una esortazione agli operatori sanitari a riappassionarsi alla loro professione, migliorando la cura del paziente non solo per mezzo della personalizzazione ma – soprattutto – dell’umanizzazione. Gli ingredienti? Ricerca scientifica, accoglienza e relazione. “Senza dimenticare che ci si ha di fronte non è un paziente, ma una persona, con un nome, un cognome e una storia”. Su One Health l’intervista esclusiva alla Professoressa Mariella Enoc, raggiunta al termine del suo intervento alla Festa della Salute iCare di Viareggio organizzata da Motore Sanità.
Professoressa Enoc, qual è stato il messaggio che ha voluto portare alla Festa del Paziente?
Ho provato a spiegare cosa significhi non solo personalizzare, ma anche umanizzare la cura: un concetto, soprattutto quest’ultimo, che abbiamo bisogno di riscoprire.
Non sempre l’umanizzazione della medicina cresce con la tecnicizzazione della medicina stessa, concentrata più sull’azione del «curare» (dall’inglese to cure) la malattia e meno su quella del «prendersi cura» (dall’inglese to care) del mondo affettivo, relazionale, psicologico e spirituale del paziente.
L’umanizzazione, infatti, non può fermarsi al paziente. Ma deve andare anche verso il genere, la persona, l’età, il sesso, la sua cultura. Allora, così facendo, questa è una medicina che sa parlare al paziente, perché ognuno di loro è diverso. Non esiste una categoria che racchiuda alcuni pazienti, ma esistono delle persone, che sono anche ammalate e, come noi li definiamo, ma solo dopo, pazienti.
Quali gli ingredienti per riuscire nella missione di umanizzare la cura?
Un ruolo importantissimo è rivestito da tre fattori: la ricerca scientifica, l’accoglienza e la relazione. Solo con tutte queste componenti insieme il paziente sta davvero al centro dell’attenzione della cura. Dobbiamo imparare a capire con chi stiamo parlando, dove possiamo portare realmente questo nostro nuovo modo di cura, e dare grande attenzione alla persona.
Che ruolo ha la Medicina di genere nell’impegno di umanizzare la cura?
La medicina di genere ha un ruolo di prim’ordine: perché non siamo un’entità, tutti uguali e senza distinzione alcuna. Siamo delle persone con un’antropologia completamente diversa l’uno dall’altra: un’antropologia che dipende dal sesso, dall’età, dalla cultura, dall’ambiente in cui si vive.
Pensare a una medicina solo di personalizzazione non basta, serve dunque una medicina di genere. I medici, gli infermieri e ogni altro operatore sanitario devono guardare al preciso nome e al cognome della persona a cui si rivolgono in ogni momento. Solo così potremo fare una medicina di qualità e offrire una cura migliore a ognuno.