Bambini con il cuore malato che hanno avuto la sfortuna di nascere nella parte sbagliata del mondo.
Territori con un Sistema Sanitario poco attrezzato, dove scarseggia personale sanitario, non si trovano medicinali salva vita, gli ospedali sono grandi stanze quasi arrangiate, regna la mancanza di igiene. Territori in cui una banale infezione ha conseguenze catastrofiche: prima fra tutte, l’insorgenza di cardiopatie in bambini che hanno appena dieci anni di vita. E i medici, purtroppo, non sono in grado di riconoscerle né di diagnosticarle in tempo utile.
È in questi Paesi che l’Associazione “Un cuore, un mondo” fa la propria parte. Team di circa 25 persone, fra medici, infermieri, tecnici e volontari, partono per terre lontane con valigie piene di medicinali e strumenti per monitorare il cuore dei piccoli pazienti. Missioni umanitarie di cooperazione sanitaria: in 15 giorni il personale lavora instancabilmente, riuscendo a operare circa 20 bambini e facendo quasi 300 screening.
Ma il loro lavoro non finisce qui. I volontari si alternano senza sosta all’interno delle foresterie costruite tutto attorno all’Ospedale del Cuore di Massa–Carrara e fra i corridoi della degenza pediatrica, trasformata nella “Città dei cuori” di Aisha, una piccola scimmietta con il cuore malato, nata dalla fantasia di Sandra von Borries, una mamma che con la fantasia ha provato a raccontare il mondo dell’ospedale alla figlia di 3 anni affetta da cardiopatia, letta e cantata dalla voce di Paola Cortellesi.
Molte sono le famiglie che, da ogni Regione d’Italia o da Paesi lontani, affrontano un viaggio per portare i propri bambini affetti da cardiopatia nella piccola città che offre loro una grande speranza. Mentre Fondazione Monasterio si prende cura del cuore dei piccoli pazienti, l’Associazione “Un cuore, un mondo” presta accoglienza, cibo, vestiti, compagnia e sostegno psicologico alle famiglie. Che siano momenti di gioco fra i corridoi della degenza, un piatto caldo nelle casine costruite attorno all’Ospedale e adibite all’accoglienza, conforto durante le lunghe attese fuori dalla sala operatoria, o supporto – per lo più morale – nell’affrontare la delicata situazione: i 40 volontari fanno tutto questo con delicatezza e con il sorriso da oltre 30 anni.
“L’associazione nasce da un gruppo di 9 genitori con figli affetti da cardiopatia congenita, e oggi siamo molti, molti di più: sono felice di portare avanti i valori e la missione che ci hanno spinti a buttarci in questa avventura decenni fa. Nell’accoglienza all’interno delle nostre casine e nelle missioni sono racchiuse l’apprensione dei medici e la paura dei piccoli pazienti, l’attesa delle famiglie, il lavoro instancabile del personale, la speranza, l’amore, e poi – nella maggior parte dei casi, per fortuna – la guarigione”, ha spiegato Mario Locatelli, il Presidente di “Un cuore, un mondo”, nell’intervista esclusiva rilasciata a One Health.
Dottor Locatelli, come nasce l’associazione “Un cuore, un mondo”? E con quale scopo?
Iniziamo dalle origini, quando tutto ha avuto inizio.
L’Associazione è nata più di 30 anni fa sotto l’egida del dottor Vittorio Vanini, all’epoca il primario della Cardiochirurgia Pediatrica all’ospedale del Cuore di Massa. Adesso in pensione, ci ha lasciato in eredità il desiderio di creare tutto attorno all’ospedale una zona che, da un lato, fosse in contatto con la popolazione del territorio e, dall’altra, potesse offrire accoglienza alle famiglie dei piccoli che dovevano essere operati al cuore.
Un gruppo di genitori di bambini e ragazzi cardiopatici si sono uniti e hanno così creato l’associazione: uomini e donne che, dalla Lombardia, hanno portato i propri figli a Massa e qui dato vita a questa meravigliosa realtà di “Un cuore, un mondo”. Io ero uno di loro: mia figlia adesso è cresciuta e sta bene. Sarò sempre riconoscente all’ospedale e all’impegno degli altri genitori. Eravamo solo 9 e oggi contiamo più di 40 volontari.
Da più di 30 anni i volontari si occupano dell’accoglienza e dell’assistenza ai bambini ricoverati e alle loro famiglie durante il periodo di degenza. Che cosa fanno i volontari?
Bambini ma anche donne che portano in grembo un bambino affetto da cardiopatia congenita, che volano fino all’Italia circa all’ottavo mese di gravidanza: le ospitiamo e le monitoriamo fino al momento del parto, teniamo loro compagnia durante l’operazione dei piccoli, che spesso entrano in sala operatoria poche ore dopo la nascita, e poi durante i controlli dei primi momenti di vita.
Non solo. I volontari si occupano degli incartamenti burocratici e dei permessi di soggiorno, dei viaggi per permettere a bambini e famiglie di ogni angolo d’Italia e del mondo di arrivare in una piccola zona come questa ma che, al tempo stesso, offre un meraviglioso servizio sanitario. Ancora, si preoccupano di trovare un interprete quando non conoscono la lingua, di fare la spesa, talvolta di reperire anche dei vestiti. Accompagnano genitori e figli alle visite e, se le persone lo richiedono, assistono anche ai colloqui con i medici, prendendo appunti e aiutando i pazienti a ricordare gli appuntamenti successivi. Tengono compagnia ai genitori durante le lunghe attese dell’operazione, offrono un supporto psicologico.
Nel tempo, hanno creato un legame di collaborazione e fiducia con il personale sanitario, affinché l’uno per l’altro sia un effettivo supporto. Un accompagnamento – mi permetto di dire – a 360 gradi, dal pancione della mamma alla dimissione a casa del bambino, fino al viaggio di ritorno, grazie al prezioso supporto della Croce Rossa.
Non solo un aiuto materiale ma un contatto umano con le persone, condivisione, empatia, assistenza psicologica.
Proprio così. Il compito, estremamente delicato, del volontario non è solo quello di sbrigare – per così dire – “piccole faccende” quotidiane. Il lavoro più difficile, ma che ci dà grande soddisfazione e ci riempie il cuore di gioia, è dare un supporto ai genitori e ai bambini. Ogni giorno ci sono 6 persone in reparto per far giocare i bambini o per dare sostegno alle mamme e ai papà. Estremamente importante, in questo senso, è la presenza all’interno delle casine della dottoressa Giada Cavazzuti, una psicologa, e fra le mura dell’ospedale degli psicologi Marco Marotta e Giulia Mutti.
Da dove vengono i bambini?
I bambini arrivano letteralmente da ogni parte del mondo. Da tutte le Regioni del Paese, ma anche dall’Albania e dalla Romania. Dall’Africa, in particolare dalla Costa d’Avorio, dal Camerun, dalla Nigeria e dal Marocco: da quest’ultimo Paese arrivano sia per operazioni a cuore aperto sia per interventi di cardiologia interventistica. Abbiamo ospitato piccoli pazienti da Ucraina e Russia.
Come si fa formazione ai volontari?
Organizziamo dei corsi per dotare i volontari degli strumenti di cui possono avere bisogno in ogni occasione, fuori e dentro l’ospedale. Durante i 3 giorni ci sono alcuni momenti teorici e molta pratica: è giusto e necessario che tocchino con mano ogni aspetto del lavoro. Dal riconoscere i segnali del reparto e i codici dell’ospedale, fino al comprendere come essere un supporto senza intralciare il lavoro di medici e infermieri. Ma soprattutto cerchiamo di trasmettere le corrette e opportune modalità in cui relazionarsi con un famigliare in un momento tanto delicato.
Ovviamente, i momenti in cui imparano di più sono quelli “sul campo” appena iniziano il proprio lavoro, cioè fra i corridoi della degenza pediatrica e nelle case, sempre accompagnati da volontari esperti.
Niente è mai lasciato all’improvvisazione: quella – l’improvvisazione – è lasciata alle famiglie, che i volontari hanno il compito di ricondurre in un contesto, quello ospedaliero, fatto di regole ben precise.
Molte sono le missioni umanitarie a cui prende parte l’associazione.
Abbiamo avviato l’attività all’estero, che inizialmente non era nei programmi dell’Associazione, grazie al Dottor Bruno Murzi, che è stato la guida e il primario della Cardiochirurgia pediatrica da quando il Dottor Vanini è andato in pensione. Mentre il medico si occupava di reperire il personale in partenza (solitamente, team di circa 24 persone), noi ci preoccupavamo – e continuiamo a farlo – di gestire ogni aspetto logistico, burocratico, della raccolta di fondi e dell’acquisto dei medicinali. Importante è il supporto di altre associazioni e delle istituzioni: in particolare, il Ministero degli Esteri e l’Agenzia Italiana per la Cooperazione e lo Sviluppo, che è partner delle nostre missioni.
La nostra principale destinazione è l’Eritrea: per la prima volta ad Asmara nel 2007, siamo sempre stati con regolarità almeno 1 volta all’anno, salvo l’interruzione del Covid. In 15 giorni i medici riescono a fare circa una ventina di operazioni, è un record quasi mondiale: tutti i bambini che invece non possiamo operare ci lasciano un peso sul cuore.
Di che cosa vi occupate?
Non solo interventi al cuore, ma rifornimenti di medicinali e macchinari: solo recentemente abbiamo fornito ai 6 ospedali eritrei degli ecografi digitali per poter fare diagnosi più accurate. E facciamo tanta formazione. Circa due volte all’anno organizziamo spedizioni di un gruppo di cardiologi, sotto la guida della Dottoressa Nadia Assanta, cardiologa pediatrica, per insegnare ai medici locali sia ad utilizzare l’attrezzatura, sia a riconoscere le diverse patologie.
Contestualmente, facciamo degli screening preventivi: questi ci permettono di redigere una lista con i nomi e i dettagli dei bambini che poi, in occasione della successiva missione con i cardiochirurghi, saranno sottoposti all’intervento.
In quelle terre abbiamo scoperto che negli anni cresceva sempre più il numero di bambini che acquisivano una cardiopatia, dopo essere nati sani, ed è una cosa che – salvo eccezioni – da noi non accade. Questo, a causa della mancanza di igiene, della indisponibilità di alcuni medicinali, di un Sistema Sanitario poco attrezzato e dell’incapacità, purtroppo, di molti medici nel riconoscere il rischio e le conseguenze delle infezioni batteriche. Abbiamo trovato dei bambini che, fra i 10 e i 15 anni, stavano male al punto tale da non riuscire quasi a trascinarsi sulle proprie gambe. Sono, questi, i casi di cardiochirurgia più difficili, che portano con sé decisioni molto sofferte, poiché a volte alcuni bambini non possono essere operati.
Ci racconta l’esperienza più importante cui ha potuto assistere durante le missioni?
Ho molti ricordi. Forse, quello che è rimasto indelebile nella mia mente e nel mio cuore è un bambino, con cardiopatia acquisita appunto, arrivato nell’ospedale del luogo in barella. È stato operato d’urgenza durante un lungo e complicato intervento di 6 ore. Nei 5 giorni di terapia intensiva è rimasto letteralmente sospeso fra la vita e la morte. Spostato in degenza, nei 4 giorni successivi, ha iniziato a sorridere: ancora non riusciva a muoversi, ma quel sorriso era più grande ogni giorno. Abbiamo avuto molta paura per lui. Poi, tutto a un tratto, si è alzato in piedi: in un’ora ha ripreso a camminare. Tre giorni dopo ha indossato la maglia di Messi e giocava a pallone nel corridoio dell’ospedale.
In questa storia è racchiusa ogni cosa: la paura dei medici, l’attesa della famiglia, il lavoro instancabile del personale, la speranza e – finalmente – la guarigione.