“La sanità globale è in crisi”, aveva scritto il professor Massimo Massetti su questa rivista circa 4 mesi fa. Ed è proprio da quel punto che abbiamo voluto riprendere in questo dialogo con il Direttore dell’Area Cardiovascolare e della Cardiochirurgia della Fondazione Policlinico A. Gemelli di Roma, Professore ordinario di Cardiochirurgia dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Roma.
La vita media si allunga, la popolazione invecchia, i bisogni di salute crescono in numero e in difficoltà, curarsi costa sempre più caro. Serve un cambiamento, serve il “coraggio di compiere un’inversione di rotta”, spiega il professor Massetti. Il personale sanitario deve ruotare attorno al paziente, non curando la malattia ma il malato nella sua interezza. L’ospedale del futuro non avrà pareti, ma “un parco botanico terapeutico, progetti per la stimolazione dei cinque sensi, ambienti gradevoli, spazi comuni per imparare norme di prevenzione, corretta alimentazione, stili di vita sani e rischi legati all’inquinamento”. Ovviamente: tecnologie all’avanguardia, équipe multidisciplinari e medici 4.0, sempre più specializzati, capaci di lavorare in team trasversali e di mettere a fattor comune le proprie competenze, umani, rivoluzionando anche l’insegnamento a partire dai banchi di scuola.
La sanità globale è in crisi.
Quando è stato creato il Sistema Sanitario Nazionale nel 1978, i principi ispiratori furono quelli della universalità, della gratuità e dell’equità. Oggi, però, questi principi non sembrano più essere garantiti e tra le principali cause ci sono il progressivo invecchiamento della popolazione e l’incremento dei costi necessari per le cure mediche.
La vita media si è allungata grazie ai progressi della medicina e, parallelamente sono cresciuti i bisogni in salute delle persone: entro il 2050 gli anziani saranno probabilmente in numero superiore rispetto a quello della popolazione attiva. Ancora, i costi della ricerca scientifica e delle tecnologie crescono insieme al progresso. Quindi, per garantire la qualità e l’efficienza dei servizi sanitari che rispettino i principi del SSN con la stessa organizzazione, sarebbe necessario incrementare il finanziamento sanitario a livelli non compatibili con il bilancio economico del nostro Paese. Ecco una spiegazione semplice e concreta della crisi che stiamo vivendo attualmente e che viene vissuta soprattutto dai bisognosi di cure e dalle loro famiglie.
Ci spieghi meglio…
La narrazione della crisi sanitaria che ci viene proposta dalla stampa e dai media, ormai quotidiana, si focalizza su quello che vivono i pazienti e i sanitari quando iniziano un percorso di cura per un qualsiasi problema di salute dai meno gravi a quelli in urgenza: file interminabili e attese estenuanti nei Pronto Soccorso, liste di attese lunghe anche per esami diagnostici, periferie sguarnite di medicina specialistica, medici in fuga dal pubblico verso il privato o all’estero. Ad aggravare tutto questo, c’è la disparità di accesso alle cure tra il Nord e il Sud.
A fronte di queste costatazioni che alimentano disagio e malcontento generale, pochi hanno spiegato che il modo con cui curiamo i malati e l’erogazioni dei servizi sanitari rispondono a regole e protocolli che sono immutati da decenni e che, alla luce dei cambiamenti, risultano superati e soprattutto non più sostenibili economicamente. Di fatto la medicina moderna iperspecialistica cura con prestazioni la malattia o una parte di essa senza prendere in carico l’intero problema di salute e soprattutto il malato inteso come persona.
Può farci un esempio?
Prendiamo una persona che vive in periferia con sintomi di un problema cardiaco che si presenta nello studio del proprio Medico di Medicina Generale. Questo professionista non ha la possibilità di fare una diagnosi e quindi lo manda da un Cardiologo per una visita specialistica, il quale a sua volta identifica chiaramente il problema cardiaco. Successivamente per eseguire esami più approfonditi, il Cardiologo lo invia in un ospedale di periferia con la necessità di rispettare le liste di accesso dove potrà accedere agli esami di diagnostica di secondo livello. E se, dopo questi esami, avesse bisogno di prestazioni più approfondite, sarà ulteriormente indirizzato ad un Policlinico nel quale si incontrano le stesse difficoltà di accesso. Dopo il ricovero, il percorso di cura sarà ancora frammentato da ulteriori trasferimenti nei vari reparti specialistici per realizzare le singole prestazioni.
Ecco che così abbiamo raffigurato il percorso di cura vissuto da un malato che per curarsi insegue competenze e risorse da un luogo all’altro perdendo il riferimento in chi lo cura. E’ in sostanza un vero percorso ad ostacoli nel quale anche l’aspetto relazionale e umano dei curanti ne risulta impoverito.
Un’odissea, insomma. Ed è da questo contesto che nasce il Manifesto della Fondazione “Dignitas Curae”, scritto a quattro mani insieme a monsignor Mauro Cozzoli. Come ci ha già spiegato alcune settimane fa, il documento evidenzia la necessità di un cambiamento del paradigma di cura e dell’organizzazione dei servizi sanitari. Una medicina che ponga il paziente al centro con il suo problema di salute e dove competenze e risorse siano al servizio della cura; multidisciplinarietà, sinergia e approccio umano ne contraddistinguono i principali aspetti organizzativi che permettono anche una razionalizzazione delle spese.
Il Manifesto della Fondazione “Dignitas Curae” è uno strumento di comunicazione e aggregazione di volontà nella visione di una medicina a dimensione umana che nulla toglie al progresso raggiunto con le tecnologie ma che ne amplifica l’efficacia e l’efficienza.
Organizzazione e gestione del sistema sanitario da un lato, centralità del paziente dall’altro. Non la cura del mero evento patologico, della malattia – come accade oggi –, ma la cura del malato, della persona a tutto tondo. L’obiettivo è chiaro: una riduzione delle liste d’attesa per prestazioni ed esami, una limitazione degli spostamenti fra strutture ospedaliere, un accorpamento di quei percorsi che oggi sono frammentati, grazie alla realizzazione di un’unica équipe multidisciplinare che ruoti intorno alla persona e verifichi le effettive necessità terapeutiche. La diretta conseguenza sarebbe un miglioramento della sostenibilità della sanità, senza dover rinunciare alla qualità elevata delle cure.
Dobbiamo (medici, infermieri, operatori sanitari in genere, politica, istituzioni) avere il coraggio di fare un’inversione di rotta: si tratta di uno sforzo importante, lo riconosco, ma poniamo le fondamenta oggi per una eccellente ed evoluta sanità di domani.
Questo modello che voi proponete esiste già?
Noi non abbiamo inventato nulla. Anzi, si tratta di un modello organizzativo ben conosciuto nelle logiche sanitarie ma mai implementato concretamente su larga scala.
Ci sono degli esempi all’estero, come il Karolinska Institutet di Stoccolma e alcuni ospedali oncologici, che sono la dimostrazione di come, con questo cambio di paradigma, sia possibile migliorare l’efficienza, l’efficacia e la sostenibilità delle cure.
E per quanto riguarda l’Italia?
Il Policlinico Gemelli ha iniziato da circa dieci anni a ragionare su questo cambiamento. E all’interno del dipartimento che io dirigo è in atto una sperimentazione organizzativa in questa direzione. Il nostro Heart Team si ritrova ogni mattina per la consueta riunione, che vede la presenza di tutti i reparti, per studiare i casi clinici, discuterne insieme, scegliere collegialmente la migliore terapia e disegnare percorsi di cura per ogni patologia.
I pazienti che varcano la soglia del dipartimento cardiovascolare e presentano un problema di salute vengono curati secondo dei percorsi clinici che li pongono al centro, mentre tutto attorno vi ruotano gli specialisti e le risorse della struttura. Significa che non esistono più le separazioni fra i reparti e gli specialisti lavorano insieme in multidisciplinarietà.
Quali i risultati di questa rivoluzione della cura?
Un miglioramento della qualità delle cure: una riduzione dei nostri indicatori sulla mortalità, sulle complicanze e sui risparmi economici.
Come apportare dunque questo cambiamento ovunque nel Paese?
La mia generazione è cresciuta con un modello sanitario verticale: una medicina molto specializzata e quindi frazionata. Ma la verticalità sta nella mente delle persone, che di conseguenza si riversa sull’organizzazione e poi sulla cura dei pazienti. I percorsi frammentati curano la malattia – sì – ma non il malato. Abbiamo l’esigenza di tornare alla centralità del paziente.
Quindi, cambiare il modello significa iniziare con il cambiare la mentalità delle persone, per poi andare fino alla riorganizzazione delle risorse negli ospedali.
Ma non basta. Serve un input da parte della politica, un coinvolgimento di chi amministra la sanità. Poi ancora non solo coinvolgere, ma convincere i medici, gli infermieri, i tecnici e gli operatori a lavorare diversamente, a mettere in sinergia le proprie competenze e collaborare sempre più con i colleghi.
Per questo cambiamento epocale ci vorranno anni e generazioni: noi oggi abbiamo il compito, però, di dare avvio al cambiamento, in primis, prendendone coscienza.
L’avvio del meccanismo di cui parla passa anche dall’evoluzione della formazione?
A proposito di questo tema, c’è oggi un problema di disallineamento tra la previsione delle persone che andranno in quiescenza e la loro sostituzione, e quindi di reclutamento e prima ancora di appealing.
Fra i banchi di scuola è giusto continuare a sviluppare questa medicina verticale e iper specialistica, perché abbiamo bisogno di medici sempre più competenti per l’aumentare – non solo – dei bisogni della popolazione – ma anche – delle crescenti difficoltà degli stessi. Allo stesso tempo, la formazione manca di tutti quegli aspetti umani della cura, oggi completamente trascurati dalle università o dalle scuole di specializzazione: non si insegna come essere un Medico, né come parlare ad un malato.
Quali dovranno essere le caratteristiche umane e professionali del medico di domani?
Il medico sarà sempre più specializzato e competente, appunto: non per essere relegato al proprio campo di competenza, bensì per partecipare a équipe trasversali e multidisciplinari e migliorare il percorso di cura del paziente, che – non dimentichiamolo – deve essere al centro.
Un medico 4.0 al passo con strutture sempre più all’avanguardia. Come dovrebbe essere l’Ospedale del Futuro?
Noi abbiamo già il disegno dell’ospedale cardiovascolare del futuro: 130 posti letto, una forte connessione con il territorio, tecnologia all’avanguardia, un parco botanico terapeutico per i pazienti e i loro familiari, progetti che coinvolgono la stimolazione di tutti e cinque i sensi. Percorsi in spazi comuni per l’educazione alla prevenzione, alla corretta nutrizione e a un sano stile di vita, ai rischi sanitari legati all’inquinamento. Ambienti gradevoli che, sappiamo, sviluppano e migliorano le potenzialità della cura.