Scoperta al microscopio nel 1860, la malattia assunse il suo – attuale – nome di endometriosi solo quasi 70 anni dopo, nel 1925. Dal greco, letteralmente, “dentro l’utero”, a cui è stato aggiunto il suffisso che indica una “condizione morbosa”, sappiamo oggi che l’endometriosi riguarda l’intero corpo femminile.
Una malattia infiammatoria cronica, caratterizzata da tessuto simil-endometriale che si espande e crea aderenze, cisti e lesioni. Le localizzazioni più conosciute sono le ovaie, le tube, il peritoneo e l’intestino, ma è possibile trovarla anche in altre zone, come il diaframma, i polmoni e, addirittura, il cervello.
Dolore pelvico, mestruazioni dolorose, emorragiche e irregolari, con perdite ematiche anomale, gonfiore addominale, dolore durante i rapporti sessuali, sterilità. Sono, questi, i sintomi più comuni e fino ad ora conosciuti.
Esatto, conosciuti. La malattia, non solo, è caratterizzata da un ritardo diagnostico medio di quasi 10 anni, ma anche da poca ricerca, mancanza di conoscenza e insufficiente formazione.
Sebbene i primi scritti sui sintomi dell’endometriosi siano comparsi più di 4mila anni fa, ancora oggi non esistono riconoscimenti, legislativi né economici, che conferiscano alle donne il diritto ad essere malate.
Sanguisughe, camicia di forza, salassi, mutilazioni genitali, gravidanza come forma di trattamento, donne appese a testa in giù, a volte persino uccise. Il dolore pelvico cronico e inspiegabile fu – per molto tempo, almeno dagli scritti di Ippocrate fino al XX secolo – attribuito a follia, debolezza, isteria e malattie mentali.
Oggi la cura della malattia, per quanto una donna non se ne liberi mai, ha sicuramente fatto incredibili passi in avanti, ma ciò che resta – e che scaraventa le malate indietro di migliaia di anni – sono tabù e stigma sociale.
Di endometriosi, dolore fisico e disagio psicologico, della forza della divulgazione sui social e dei cambiamenti che servono al nostro Paese, abbiamo parlato in esclusiva su One Health con Giorgia Soleri, influencer e attivista da 727mila follower, testimone diretta della malattia ma, sottolinea: “Non mi sento un esempio. Combatto molto per il diritto di essere una malata imperfetta. Ma posso dire che tante donne sono, invece, un esempio per me. Mi sento all’interno di questa bellissima comunità che si è creata sui social e ne sono molto grata”.
Giorgia, che cosa significa convivere con questa patologia?
È la mia vita, ciò che vivo ogni giorno. E credo che questo valga per ogni malattia invisibile, cronica, senza una cura o con un rimedio il cui unico scopo sia tenere a bada la sintomatologia. Credo che la parte più pesante di vivere con una malattia cronica sia doversi arrendere ad essa. Viviamo in una società che non sa avere a che fare con il sentimento dell’impotenza: che riguardi noi o qualcuno a noi caro. Oggi per l’endometriosi non esiste una cura, posso solo imparare a gestire la sintomatologia e arrendermi alla cronicità, a una malattia che mi accompagnerà per tutta la vita e questo, forse, è il lato peggiore.
Non solo. L’endometriosi riguarda, oltre al resto, apparato riproduttivo, i genitali e la sfera della sessualità della donna, sul quale oggi ci sono molti tabù: ciò rende maggiormente difficile parlarne. Spesso, ad esempio, le persone si vergognano ad ascoltare il racconto della patologia o dei sintomi quando questi riguardano la vulva o la sessualità: ma qual è la mia colpa ad avere la malattia? Non ci sarebbero le stesse reazioni se il dolore fosse a un ginocchio o a una mano.
Ma voglio aggiungere una cosa positiva.
Prego.
Essere una persona con endometriosi mi ha permesso di conoscere una comunità di persone e pazienti che non solo non immaginavo, ma non pensavo potesse esistere. Siamo tante, viviamo la stessa esperienza e ci aiutiamo ad affrontare le difficoltà, come quella di svegliarsi senza sapere come si sta, o come quella di comprendere che se per un giorno non hai alcun dolore o ne hai meno del solito, quella è una rarità e devi goderne.
Voglio ricordare prima di tutto a me stessa che non sono la sola ad aver vissuto il trauma di un ritardo diagnostico medio di 10 anni. E ora vogliamo combattere e avere i diritti, le tutele e il riconoscimento che meritiamo.
Dolore fisico e disagio psicologico: quali sono le conseguenze della malattia?
Avere una malattia – una qualsiasi – può diventare un viaggio di introspezione all’interno del proprio corpo.
È difficile arrendersi e capire che la malattia è, purtroppo o per fortuna, la cosa più democratica del mondo. Spesso mi viene da chiedermi: “perché a me? Cosa ho fatto per meritarlo?”. E invece non ho fatto niente, sono stata sfortunata come altre 4 milioni di donne in Italia, e chissà quante altre ne esistono che ancora non hanno ricevuto una diagnosi. Non c’è colpa né responsabilità. A volte mi sono sentita in dovere di imparare qualcosa dal dolore. E invece possiamo accettare che il dolore non insegna, fa schifo e vorremmo solo che si allontanasse: spesso rende solo la vita più difficile. Sono in terapia da anni e ringrazio di avere il privilegio di potermi prendere cura delle conseguenze che la malattia ha sulla salute mentale.
Un altro aspetto è il ritardo diagnostico e ciò che le donne vivono lungo il percorso che porta loro alla diagnosi. Ho iniziato ad avere i primi sintomi a 14 anni, con il menarca: era un dolore invalidante, secondo me chiaro a chiunque che non fosse nella norma. Ma per anni mi sono sentita ripetere che ero esagerata, emotiva, ansiosa, di bermi un bicchiere di vino per rilassarmi: sono frasi, sempre uguali e sentite fino allo sfinimento, che si radicano dentro ognuna di noi.
Noi donne con l’endometriosi ci sentiamo continuamente invalidate, annullate, silenziate, sminuite nel dolore. Oggi che ho una diagnosi e, dopo tanti anni, ho imparato molto sulla malattia e sulle sue conseguenze psicologiche, mi viene da domandare: se questo fosse stato un dolore psicosomatico, se io fossi stata – come mi ripetevano – emotiva e ansiosa, perché veniva considerato comunque non meritevole di attenzione e ascolto? Se la sofferenza psicologica è tale da causare dolori fisici, forse quella persona ha bisogno di aiuto. Ogni dolore è meritevole di attenzione, perché è uno strumento meraviglioso che il nostro corpo ci mette a disposizione, è un campanello d’allarme che avverte di qualcosa che non va. Silenziarlo e annullarlo è l’errore più grande che una persona – uomo o donna che sia – possa commettere.
Endometriosi: un tabù, uno stigma sociale o una mancanza di conoscenza?
L’endometriosi è tabù, stigma e ignoranza.
Il problema nasce dalla ricerca. Fino agli anni ’70 il corpo femminile veniva studiato esclusivamente per la sola funzione riproduttiva. Abbiamo dovuto aspettare il 1991 perché qualcosa cambiasse. In quell’anno Bernardine Healy, una cardiologa americana, ha coniato il termine Medicina di Genere: attraverso i suoi studi ha scoperto che, nonostante le malattie cardiovascolari oggi sappiamo colpire in maniera equa gli uomini e le donne, le donne tendono ad essere sottodiagnosticate e a ricevere meno terapie, rischiando – paradossalmente – di morire di infarto con maggiore probabilità rispetto agli uomini. Stando ai dati, oggi muoiono più donne per malattie cardiovascolari.
Questa visione innovativa ha portato, a cascata, una serie di conseguenze. Ad esempio, siamo l’unico Paese in Europa ad avere una legge sul tema, peccato solo che non venga considerata a dovere.
Per lungo tempo l’endometriosi è stata associata all’endometrio – da cui il nome –: solo 10 anni fa è stato scoperto che non è così. Si tratta di una malattia diagnosticata e operata dai medici ginecologi, ma ha a che fare con tutto il corpo. Consideriamo il dolore mestruale il primo campanello d’allarme per l’endometriosi, ma non è l’unico e chissà quanti ne esistono e che ancora non conosciamo, con la dannosa conseguenza, per molte donne, di non riuscire ad arrivare alla diagnosi. Ho sentito che proprio per questo motivo sta nascendo un vero e proprio movimento per chiedere una modifica al nome della malattia.
La carenza di studio, formazione e ricerca ha poi portato al tabù e allo stigma. Conseguenze sociali e sociologiche sono, ancora una volta, testimonianza della considerazione atipica del corpo femminile e dei suoi sintomi. Eppure, le donne costituiscono la metà della popolazione mondiale. Non vorrei che si incappasse nell’errore di considerare “tipico” soltanto il corpo maschile.
Qual è stata l’esperienza che ti ha fatto capire di doverne parlare e accendere una luce sulla malattia?
Aver avuto la diagnosi grazie ad altre persone che ne hanno parlato.
Come già ricordato, ho avuto i primi sintomi a 14 anni, e per 8 anni ho sofferto di cistite cronica: erano i segnali di una vulvodinia. Nel 2020, poi, sono peggiorata drasticamente: è stato il momento in cui ho pensato “o guarisco o la faccio finita”. Non riuscivo più a sostenere il dolore lancinante ogni giorno. Era una situazione, anche psicologicamente, davvero forte: al dolore fisico si è aggiunto l’aver perso il lavoro e la casa. Ogni notte restavo sveglia e cercavo su Google i miei sintomi: aprivo e leggevo tutti i link delle prime 10 pagine, provavo a intrecciare le risposte che trovavo. Mi sono riconosciuta nella vulvodinia, che poi mi è stata effettivamente diagnosticata da un medico.
Quello della autodiagnosi è un fenomeno che non deve essere sottovalutato: non è un modo per esautorare chi ha studiato, non riconoscere la professionalità dei medici, ma una situazione di vera e propria disperazione. Oggi è uno strumento, sbagliato sì, ma di cui alcune persone, soprattutto quelle affette da una malattia caratterizzata da notevole ritardo diagnostico, hanno disperatamente bisogno e da tenere dunque in considerazione.
Sono stata in molti centri specializzati. La risposta? Sempre e solo ansia e ipocondria. Poi, chattando con una ragazza conosciuta in rete e affetta dalla mia stessa malattia, sono stata indirizzata da una ginecologa di Bergamo: significava un viaggio di 600 km, stressante dal punto di vista economico, di energia e di tempo. Ma non mi importava. È stata la prima ad ascoltarmi davvero a fare questa ipotesi di diagnosi, poi confermata. Un medico americano, che mi è rimasto impresso, spiega: “Spesso diciamo che le storie di endometriosi sono silenziose, ma nessuna lo è: basta ascoltare la sintomatologia”. Niente di più vero.
Cosa significa essere un esempio per le oltre 3milioni di donne italiane che ne soffrono?
Non mi sento un esempio. Combatto molto per il diritto di essere una malata imperfetta. A volte ho voglia di fare esperienze che non sono giuste per la mia condizione, che so che mi faranno male. Sento il bisogno di sentirmi “normale”, fare ciò che una donna di quasi 30 anni dovrebbe poter fare: accetto il rischio di stare male, ma ci provo. Ecco perché non sono di esempio a nessuna. Ma posso dire che tante donne sono, invece, un esempio per me.
Mi sento all’interno di questa bellissima comunità che si è creata sui social e ne sono molto grata.
Una community decisamente nutrita che chiede di essere ascoltata. Qual è il potere della condivisione?
Che si parli di malattia, di salute o di qualunque altra cosa, la condivisione è il primo e forse l’unico strumento che abbiamo. Siamo sempre più abituati a vivere in società individualista, nella quale per una persona che riesce in qualcosa significa che un’altra deve cadere, quella del “mors tua vita mea”. Io non ci credo e se altre persone non avessero messo al servizio della comunità la propria esperienza io non sarei qui, dunque io mi sento in dovere di farlo.
E non è soltanto per l’endometriosi. Ci sono moltissime malattie al mondo, traumi, dolori, difficoltà: in questo modo ci dividiamo il peso gli uni degli altri, non siamo soli. Ogni volta che penso di non condividere, rileggo i messaggi di chi ha ottenuto una diagnosi grazie alla mia testimonianza e mi ricordo perché invece è importante farlo, e soprattutto aiuta me a non caricarmi questo peso da sola. Viviamo il dolore insieme, e questo fa tutta la differenza del mondo.
In base alla tua esperienza, come è cambiato nel corso del tempo l’approccio del medico specialista di fronte a questa patologia?
Sicuramente si parla di più di endometriosi. Parlarne non ha conseguenze positive solo sulle pazienti, ma anche sui medici e sul personale sanitario che possono cambiare la vita di donne che soffrono.
Ovviamente, sussistono ancora molti problemi: nonostante sia una patologia comune, che colpisce quasi 1 persona su 10, sussiste la necessità di una formazione adeguata nelle università e nelle specializzazioni. E anche le istituzioni dovrebbero fare di più.
Esiste una esenzione – la 063 – che dà diritto alle donne con una diagnosi conclamata di endometriosi di terzo e quarto stadio (quindi moderata e grave) a un esame e due visite l’anno. Talvolta, poi, la diagnosi ufficiale si riceve solo dopo un’operazione chirurgica, di cui non tutti hanno bisogno o alla quale si sottopongono. La stadiazione non è in alcun modo legata alla sintomatologia: io sono un primo stadio, con dolori lancinanti e senza diritto alcuno all’esenzione. Un altro problema legato all’esenzione è che il diritto alle visite specialistiche riguarda il settore pubblico e non tutti i medici sono formati, non si può scegliere a chi affidarsi, con il rischio di non avere un percorso di cura coerente. E ogni volta questo ci costringe ad affrontare il dolore di raccontare e ripercorrere la nostra storia clinica.
Oltre alla preparazione medica, secondo te esiste la necessità di fare apportare dei cambiamenti normativi? Pensiamo ai criteri di invalidità, i costi della cura, le esenzioni e il riconoscimento della malattia sul posto di lavoro.
L’invalidità che spesso consegue alla malattia, penso alle donne che hanno difficoltà a muoversi o ad alzarsi dal letto per il dolore, non ha alcun riconoscimento. E, quindi, nessuna esenzione. La sola endometriosi conferisce una percentuale di invalidità del 30%: ma per avere un riconoscimento, deve essere raggiunta la soglia del 35%. Il paradosso è arrivare – e a noi succede, purtroppo – a quasi sperare di avere qualcosa in più per raggiungere la quota. Non abbiamo diritto neanche a un aiuto economico come la pensione di invalidità, nonostante per molte sia difficile – se non impossibile – lavorare ai ritmi di una persona sana.
Mi chiedo: lavorare per sopravvivere o rinunciare alla propria indipendenza sperando che la famiglia possa sostenerci economicamente per tutta la vita?
Dunque, c’è una forte necessità di un riconoscimento, che può essere utile sia sul posto di lavoro che nel ricevere aiuto e accesso alle cure. Ancora, sono talmente pochi i medici specializzati che le donne devono intraprendere viaggi della speranza. Sono consapevole del mio privilegio, ma chi non ha questa fortuna? Sono abbandonate dallo Stato, mentre sulla carta il nostro Sistema Sanitario è uno dei più equi e giusti. Si tratta di una malattia che colpisce oltre 3milioni e mezzo di donne, e chissà quante sono le persone che ancora non hanno ricevuto una diagnosi. Ci stanno abbandonando lo Stato, le Istituzioni Sanitarie, il mercato del lavoro.
Le donne oggi sono vittima del pay gap, del part time obbligato per gestire una famiglia, della discriminazione in occasione dei colloqui: e se hanno anche una malattia invalidante ma non riconosciuta? Tutte queste donne sono tagliate fuori dal mondo del lavoro.