L’articolo 7 del Codice Deontologico delle Professioni Infermieristiche afferma che: “L’Infermiere promuove la cultura della salute favorendo stili di vita sani e la tutela ambientale nell’ottica dei determinanti della salute, della riduzione delle disuguaglianze e progettando specifici interventi educativi e informativi a singoli, gruppi e collettività”. Così come il Codice dell’International Council of Nurses, che in un passaggio dell’articolo 4, riporta testualmente che “… gli infermieri contribuiscono alla salute delle popolazioni e operano per il raggiungimento degli obiettivi per uno sviluppo sostenibile delle Nazioni Unite…”.
Si tratta di proposizioni formulate da anni, ma che avevano in sé già tanti elementi che troviamo oggi sul tavolo quando affrontiamo l’analisi della nostra società e dei suoi bisogni di salute e assistenza secondo un approccio One Health, visione olistica basata sull’integrazione di discipline diverse. Approccio antico e al contempo avveniristico, se si pensa a quanti silos hanno finora contraddistinto i modelli attraverso i quali abbiamo agito nel corso delle nostre rispettive carriere professionali. Un nuovo approccio nel quale le collaborazioni interdisciplinari e le interazioni tra i professionisti possono rappresentare un nuovo schema di gestione che contribuisce a rendere efficace e sostenibile l’organizzazione del sistema sociosanitario.
Del resto, la salute umana non può prescindere dalla salute dell’ambiente nel quale l’uomo vive e le diverse e variegate le figure professionali coinvolte direttamente e indirettamente in attività di prevenzione, assistenza e cura necessitano di percorsi formativi e aggiornamenti professionali adeguati agli importanti ruoli che ricoprono e ricopriranno nella dimensione “One Health”.
Progettare una sanità sostenibile, infatti, vuol dire prendersi cura non solo dei nostri simili, superando egoismi e particolarismi, ma anche della natura, dell’ambiente e dello sviluppo sociale, economico e culturale della società.
Questa grande area di cambiamento punta a realizzare un nuovo modello di assistenza territoriale di prossimità per portare le risposte ai bisogni di salute il più vicino possibile ai cittadini.
A questo scopo è ormai in atto una riforma del modello organizzativo basata: sul potenziamento dell’assistenza domiciliare; sulla realizzazione di nuove strutture e presìdi sanitari che migliorino l’accessibilità, ampliando la disponibilità di servizi di prossimità; sulla definizione di un nuovo assetto istituzionale per la prevenzione sul territorio in ambito sanitario, ambientale e climatico.
Crediamo inoltre che la realizzazione del paradigma One Health debba necessariamente passare attraverso l’uso competente e consapevole delle tecnologie digitali. Solo l’innovazione digitale, infatti ci può consentire non solo di comprendere e gestire le interconnessioni, valorizzando i dati e le informazioni, ma anche di riprogettare i servizi di cura per renderli scalabili e accessibili a tutti. C’è un nuovo rischio, infatti, soprattutto per i malati cronici più gravi e per gli abitanti nelle aree interne dove la qualità dell’offerta sanitaria è spesso compromessa: la fragilità digitale.
La soluzione che il nuovo modello di sanità disegnata dal PNRR ha pensato soprattutto (ma non solo) per loro è la teleassistenza. Ma dopo gli esami e la diagnosi a distanza, chi assiste il cittadino? Chi verifica le sue condizioni di salute e l’aderenza alle terapie? Chi controlla, registra e interviene nel caso di ulteriori bisogni di salute perché non sia lasciato solo?
Nelle nuove strutture e nel modello disegnato dal PNRR con il decreto 77/2022 di riordino dell’assistenza sul territorio a farlo è l’infermiere, in particolare quello di famiglia e comunità, presente nei vari target e a domicilio con precise responsabilità a tutti i livelli e che dà supporto all’assistito per tutte le sue necessità cliniche, assistenziali e anche sociali.
Gli infermieri rappresentano la figura centrale attorno cui ruota gran parte della rivoluzione del territorio disegnata sin dalle prime bozze di quello che in piena pandemica era chiamato “Recovery Plan”.
Ci siamo resi conto che durante la pandemia chi entrava nelle case delle persone non lo faceva come singolo professionista ma come parte di un sistema di conoscenze e competenze che aveva il compito di raccogliere un bisogno che era frammentato, da ricomporre.
Ci siamo resi conto delle situazioni di fragilità di visibilità di prossimità che non erano state prese in carico; il grande disabile positivo al Covid assistito dai genitori ottantenni positivi e non in grado di alzarsi dal letto; famiglie che non mangiavano da giorni; bombole di ossigeno tenute accanto alla cucina a gas.
L’infermieristica di famiglia e di comunità è un’evoluzione non solo auspicata, ma anche doverosa rispetto alla modifica dei bisogni di salute delle popolazioni.
Non è un caso se si chiama di famiglia e di comunità.
Il “di famiglia” per noi significa che l’infermiere è il candidato naturale a essere colui che identifica, raccoglie il bisogno, lo decodifica, lo inserisce nei percorsi, e mette in rete tutti quelli che devono in qualche modo rispondere a questo bisogno. E in questo senso va anche il “di comunità”. Significa che è inserito nel tessuto sociale della comunità che fa rete con tutta la comunità con le reti formali e informali.
Significa che si occupa ad esempio della scuola così come si occupa dell’ambiente perché guarda alla promozione della salute e gli stili di vita, ma anche alla necessità di quelle azioni di promozione di prevenzione, dell’alimentazione, ed è inserito nel territorio di cui la comunità fa parte.
Gli infermieri possono dare un contributo importante volto a intraprendere azioni immediate per costruire sistemi di salute e assistenza compatibili con l’approccio One Health: dalla formazione e preparazione professionale sugli effetti sulla salute prodotti dalla crisi ecologica allo sviluppo di modelli di cura atti a ridurre l’impatto ambientale dell’assistenza sanitaria; dall’implementazione di programmi di salute per emergenti malattie infettive trasmissibili a un impegno concreto per rendere sostenibili le infrastrutture del settore sociosanitario.
Le potenzialità dunque sono enormi, ma la mancanza di infermieri mina seriamente il raggiungimento di tanti obiettivi che sembrano a portata di mano. La carenza di personale infermieristico in Italia è problema serio e ormai evidente. Mediamente ogni anno entrano nel sistema 11.000 infermieri laureati, ma ne perdiamo 14.000 per pensionamento. A questo dato già negativo si aggiunge la scarsa attrattività generale della professione. La richiesta che ci sentiamo di fare è quella di non sottovalutare il problema e di stanziare ulteriori risorse per sostenere il SSN e renderlo maggiormente attrattivo, anche presso i tanti nostri colleghi che hanno scelto di esercitare all’estero dove hanno trovato modelli organizzativi e opportunità di realizzazione professionale non esigibili nel nostro Paese.