“La pandemia ha dimostrato che una collaborazione virtuosa tra sanità pubblica e privata convenzionata può aumentare la capacità di risposta del Sistema Sanitario ai bisogni dei pazienti. Il privato convenzionato è parte integrante del servizio pubblico e come tale vogliamo che contribuisca in pieno a soddisfare la domanda di salute dei cittadini”. Questa dichiarazione del Ministro della Salute, Orazio Schillaci, è forse il più bel regalo ricevuto in occasione del sessantesimo anniversario dalla fondazione di ARIS, l’Associazione che riunisce le strutture socio-sanitarie gestite da enti e congregazioni religiosi. E c’è di più. In una delle risposte all’intervista che ha concesso al numero celebrativo della nostra rivista, ha detto di vedere la sanità religiosa “sicuramente come un alleato del servizio pubblico”, considerando lo scenario demografico che si prospetta, ed il costante aumento della domanda di salute “soprattutto dagli anziani”.
Forse esagero nel ritenere queste dichiarazioni “il più bel regalo”, perché questo nostro essere “parte integrante del SSN”, con pari dignità, diritti e doveri del servizio pubblico, ci è stato attribuito dalla Legge, sin dalla prima istitutiva del SSN. Da sessant’anni, dunque, le nostre strutture convenzionate e no profit sono parte istituzionale del sistema sanitario nazionale. E ciò ben prima che le riforme, sia quelle che si sono succedute che quelle in itinere, recepissero questa nostra presenza come costitutiva ed essenziale per la tenuta del sistema a beneficio dell’universalismo e della libertà di scelta. . Lo stesso Consiglio di Stato li ha riconosciuti “consustanziali” a quelli pubblici. Essi dunque sono, per legge, oltre che per logica di funzionamento e di missione, strutture costitutive dell’ambito sanitario in cui sono ubicati.
E’ comunque un bel regalo perché è la prima volta che un Ministro della Salute riconosce pubblicamente il nostro legittimo ruolo di parte integrante del SSN. Peccato che a far orecchie da mercante siano sempre i Governi che si susseguono, sia quelli nazionali che quelli regionali, al punto da ignorare la nostra esistenza quando si tratta di erogare aiuti, migliorie o comunque lo stesso trattamento che ottengono le strutture pubbliche ed il loro personale. Questo forse anche sull’onda di un’opinione pubblica mal informata, che non sa che per il cittadino una prestazione ricevuta nelle nostre strutture non costa nulla di più del ticket previsto. E per le casse del SSN la spesa è pari, se non inferiore, al costo di quella eseguita in una struttura pubblica. La vera differenza è che, grazie alla nostra partecipazione, le liste di attesa, già mostruose, ne traggono comunque beneficio. Un beneficio che potrebbe essere ancora migliore, se non decisivo, se togliessero il limite che ci viene imposto: più di tante prestazioni non le possiamo erogare. Noi operiamo autorizzati, accreditati e a contratto.
Ciò che più ha impreziosito la presenza delle nostre strutture nel sistema Paese è stata proprio la scelta di farsi non profit sulla scia del nostro caratteristico spirito di servizio ai sofferenti, che si ispira al Vangelo. Ed in perfetta linea con la nota legge 229/99 art. 18 punto 1. Si tratta, in sostanza, di far convivere, nella concretezza dell’organizzazione sanitaria e della sua gestione, efficienza, sostenibilità e valori di solidarietà. Paradigmi che funzionano se sono intrecciati saldamente. Senza sfilacciature. Senza falsi miti. Essere non profit, e le riforme in itinere di impresa sociale e terzo settore lo riaffermano con energia, non vuol dire legittimare perdite e alibi per sprecare o giustificare gestioni inefficienti. Essere non profit vuol dire reinvestire all’interno dell’istituzione gli avanzi conseguiti come fattore essenziale di investimento, sviluppo e aggiornamento. Investimenti in tecnologie ed infrastrutture, ma anche nella qualità e nella responsabilizzazione (anche carismatica e valoriale) del personale.
Oggi, con le nostre oltre 260 strutture socio-sanitarie sparse in tutta Italia, tra le quali figurano Istituti di Ricerca Scientifica – come il Policlinico Universitario Agostino Gemelli di Roma, il Campus Biomedico o l’Auxologico di Milano -, Ospedali – come il Miulli di Bari, o il Fatebenefratelli -, Case di Cura – come la Poliambulanza di Brescia o la San Camillo di Cremona -, Centri di Riabilitazione – come la Fondazione Don Gnocchi, la Lega del Filo d’Oro, il Don Guanella -, Residenze sanitarie assistenziali ed Istituti ex Psichiatrici, rappresentiamo un’offerta di oltre 40mila posti letto, serviti da circa 100mila operatori sanitari, e ben oltre 4 milioni di prestazioni ambulatoriali all’anno.
Una presenza, la nostra, che si è dimostra irrinunciabile per il sistema sanitario del Paese, proprio nel momento dell’emergenza causato dalla pandemia che ha colpito il mondo intero. Difficilmente il Paese avrebbe potuto far fronte all’emergenza sanitaria che ne ha sconvolto la vita senza l’apporto delle nostre opere. E hanno dovuto prenderne atto anche le autorità istituzionali, quelle stesse che hanno mostrato tanta difficoltà nel riconoscere il nostro ruolo. Tant’è che nel momento in cui si è deciso finalmente di metter mano ad una profonda revisione dell’assetto assistenziale del nostro Paese, si è capito che non esiste la sanità pubblica senza la sanità privata, così come non esiste sanità la privata senza la sanità pubblica.
Noi ci battiamo perché tutto non sia solo parola ma una convincente e riconosciuta realtà.