Le malattie cardiovascolari rappresentano ancora la prima causa di morte nel mondo con 18,5 milioni di decessi l’anno e si prevede che nel 2030 aumenteranno a 23 milioni. In Italia tali patologie fanno registrare 230mila morti, il 44%, ogni 12 mesi: il 31,7% sono uomini e il 37,7% sono donne. Nel dettaglio, la cardiopatia ischemica ha un’incidenza del 28%, mentre gli accidenti cerebrovascolari sono al terzo posto con il 13%, dopo i tumori. Secondo l’Istat, nel corso della pandemia da COVID-19, le malattie del sistema circolatorio hanno provocato il 30,5% dei decessi solo nella penisola.
Infarti, scompensi e ictus spesso colpiscono la popolazione adulta dai 60 anni di età. Chi sopravvive a un attacco cardiaco diventa un malato cronico. La malattia modifica la qualità della vita e comporta notevoli costi, anche economici per il sistema sanitario. In Italia la prevalenza di cittadini affetti da invalidità cardiovascolare è pari al 4,4 per mille, come sottolineano i dati Istat. Fra i più importanti fattori di rischio vi sono tabagismo; sedentarietà o insufficiente attività fisica; scorretta alimentazione; sovrappeso e obesità; ipertensione arteriosa; dislipidemie; diabete mellito.
Il futuro dunque sembra tutt’altro che roseo: entro il 2030 si stimano 24 milioni di morti nel mondo l’anno per cause cardiovascolari, più di 66mila in media al giorno. Occorre dunque un’inversione di rotta su prevenzione e modelli di cura. Le malattie del cuore sono e devono essere dunque una priorità per la sanità pubblica e i programmi di riabilitazione costituiscono le più efficaci strategie per ridurre il carico di morbilità e attenuarne le ripercussioni. Di questa prospettiva abbiamo parlato con Marco Ambrosetti, Presidente di Italian Association for Cardiovascular Rehabilitation and Prevention (ITACARE-P), a margine del convegno “Prevenzione e riabilitazione per la salute cardiovascolare”, che si è tenuto in Senato, alla presenza di Istituzioni ed esponenti del mondo clinico e scientifico, promosso dalla stessa associazione e dal Summeet, società leader nell’organizzazione di eventi di formazione a carattere scientifico, ponte culturale tra professionisti sanitari e stakeholder.
Professor Ambrosetti, con l’associazione che presiede siete in prima linea per diffondere la cultura della prevenzione e della riabilitazione, con l’obiettivo di ridurre questa nuova pandemia. Cosa è, dunque, ITACARE-P e quale la sua mission?
E’ la community di tutti coloro che si occupano o si interessano di Cardiologia Riabilitativa e Preventiva in Italia. E’ una società scientifica di settore rappresentativa della maggior parte delle oltre 200 strutture sanitarie che erogano percorsi riabilitativi strutturati a livello nazionale dedicati al paziente cardiopatico, fondata anche come Associazione di Promozione Sociale (APS) del terzo settore, a ulteriore conferma di una missione dedicata non solo al professionista sanitario ma anche al cittadino fruitore del servizio, al fine di promuovere la qualità, l’equità e l’umanizzazione delle cure per chi è già portatore di una patologia cardiovascolare o a rischio di svilupparla.
Ci aiuti dunque a comprendere come funziona e perché scegliere la cardiologia riabilitativa.
Stiamo parlando di una branca della cardiologia che prevede un intervento sul paziente cardiopatico realizzato in strutture sanitarie dotate di appositi percorsi in regime di ricovero, day-hospital, ambulatoriale e – laddove presenti – in forma di telemedicina. Nei fatti, a questo percorso accede ancora una minima parte dei pazienti cardiopatici in Italia – a causa di molteplici barriere non solo individuali ma anche di sistema – e per questo motivo sono necessarie azioni volte ad aumentare non solo l’attenzione del decisore ma anche la sensibilità della popolazione generale verso questa possibilità di cura.
La vostra iniziativa in Senato si inserisce in un quadro sanitario molto delicato. Secondo l’ISTAT, nel 2021, le malattie cardiovascolari hanno rappresentato il 30,8%. Tra ischemie, infarti, malattie del cuore e cerebrovascolari, muoiono più di 230 mila persone all’anno. Siamo davanti ad un problema senza soluzione?
Talvolta la soluzione più semplice ed efficace per risolvere una criticità è a portata di mano, venendo tuttavia inspiegabilmente trascurata. A questa dinamica sembra non sfuggire neppure l’ambito della cura della persona con malattia cardiovascolare, soprattutto in fase post-acuta e cronica, tra i cui bisogni principali spiccano il raggiungimento e il mantenimento di una stabilità clinica, la riduzione del rischio di incorrere in eventi successivi, il recupero della capacità funzionale globale, la ripresa lavorativa, l’adozione di uno stile di vita salutare (soprattutto in tema di nutrizione ed esercizio fisico) e infine il supporto psicologico e sociale.
In quale modo lo specialista può rispondere a questi bisogni del paziente?
Con la Cardiologia Riabilitativa, appunto. Con ITACARE-P, abbiamo individuato quattro strategie: controllare maggiormente i fattori cardiometabolici; adeguare lo stile di vita; prestare maggiore attenzione agli aspetti psicosociali e aumentare la cultura della riabilitazione e della teleriabilitazione. Quest’ultima strategia appare veramente omnicomprensiva di tutte le azioni effettuabili per migliorare la salute cardiovascolare del paziente, come ampiamente riconosciuto dalla medicina moderna. Ci stiamo adoperando – e anche il convegno nasce con questo intento – affinché tali impegni facciano sempre più parte dell’agenda dei decisori politici e siano portati a un maggiore livello di conoscenza e consapevolezza nella popolazione generale. Alcune delle azioni proposte (ad esempio, il controllo dei fattori di rischio, la promozione dell’aderenza alle terapie di cardioprotezione, o la modifica dello stile di vita) fanno sicuramente parte del patrimonio concettuale dell’intero mondo cardiologico, non solo riabilitativo. La Cardiologia Riabilitativa è, però, in grado di leggere tutto questo veramente in un’ottica omnicomprensiva e multidisciplinare, con proiezione lungo l’intera traiettoria di cura del paziente, dalla fase post-acuta a quella cronica.
Nel corso del suo intervento al Convegno “Prevenzione e riabilitazione per la salute cardiovascolare” ha evidenziato anche la necessità di un maggiore riconoscimento della Cardiologia Riabilitativa, come branca ben definita della Cardiologia, e della figura del cardiologo riabilitatore.
La Cardiologia Riabilitativa deve avere pari dignità di altre specializzazioni spesso considerate “di maggiore fama”, come la Cardiologia Interventistica o Aritmologica. Lo stesso vale per lo specialista, per il quale attualmente a livello nazionale e internazionale sono disponibili percorsi specifici di certificazione professionale. Tutto ciò non appare scontato, perché nel nostro Paese (e per chi opera in questo contesto è una vera criticità) la Cardiologia Riabilitativa a livello ministeriale o, comunque, del pubblico decisore, non esiste, essendo inserita nel “calderone” delle attività riabilitative a codice 56 insieme a quelle neuromotorie, ortopediche, pneumologiche.
Questo cosa comporta?
Dal punto di vista scientifico e operativo rappresenta un grande limite perché non riconosce abbastanza che riabilitare un paziente con patologia cardiovascolare acuta e cronica non vuole dire soltanto effettuare un recupero motorio o fornire un supporto psicosociale, ma anche e soprattutto titolare (ovvero incrementare e migliorare) la terapia in corso, ridurre il rischio cardiovascolare attraverso interventi farmacologici e sullo stile di vita (pensiamo soltanto all’esercizio fisico strutturato ad adeguata intensità e in sicurezza, da espletare anche nel lungo periodo) e infine ridurre il rischio di nuovi eventi acuti, veicolo di ulteriore disabilità e costi per il sistema sanitario. Ecco perché è ormai ampiamente riconosciuto che la Cardiologia Riabilitativa sia il modello non solo più efficace, ma anche costo-efficace per realizzare una vera e propria prevenzione cardiovascolare.
Quali sono i vantaggi di questo approccio? Può farci alcuni esempi di Paesi in cui viene adottato con successo?
Chi accede a un percorso di Cardiologia Riabilitativa riduce del 30-40% il rischio di morte e di riospedalizzazione per cause cardiovascolari. Alla luce della comprovata efficacia dell’intervento, dunque, l’invio del paziente deve configurarsi come un compito preciso del medico, con relativo sforzo di abbattimento o riduzione delle potenziali barriere, e come un diritto del paziente, finalizzato ad avere un percorso di cura il più possibile efficace per la riduzione della propria disabilità e del rischio di incorrere in ulteriori eventi. Alcuni sistemi sanitari avanzati hanno già capito questa lezione: ad esempio negli USA l’iniziativa “Million Hearts” prevede di evitare un milione di eventi cardiovascolari maggiori nell’arco di cinque anni aumentando l’accesso dei pazienti alla Cardiologia Riabilitativa dall’attuale 24% al 70%. Con questo obiettivo il referral post evento cardiovascolare acuto oltreoceano è considerato un indicatore di qualità delle cure, e il mancato invio come un punto di demerito per l’ospedale inadempiente, con ricadute anche di tipo economico.
E in Italia come siamo messi?
In Italia siamo sulla buona strada, ad esempio con la promulgazione da parte di AGENAS degli indicatori di qualità di cura per le reti cardiologiche dell’infarto del miocardio, tra i quali spicca ora (per la prima volta!) il tasso atteso di invio dei pazienti a percorsi riabilitativi, attualmente ridotto a un inaccettabile 10% come media nazionale. Recentemente è stato rilasciato un position paper congiunto con la società scientifica FADOI, espressione del grande e importante mondo della medicina interna, per ribadire i criteri di priorità al referral alla Cardiologia Riabilitativa, anche in quelle popolazioni maggiormente a rischio di non accedere a questi programmi (anziani, fragili, con plurime comorbilità internistiche). La Cardiologia Riabilitativa può rappresentare davvero una risposta anche alle esigenze del sistema di emergenza-urgenza e all’affollamento cronico dei Pronto Soccorso, essendo infatti un setting che può rendere più efficiente l’utilizzo dei posti letto per acuti facendosi carico della gestione della post-acuzie in modalità fast-track.
Mi sembra di leggere nelle sua parole un gigantesco “Ma..”.
Il fatto che solo un paziente su 10 acceda a programmi di Cardiologia Riabilitativa, così come fotografato da AGENAS, ci pone agli ultimi posti tra i sistemi sanitari più avanzati, tra i quali invece ci vantiamo di essere inclusi. Tale divario ovviamente richiede un incremento di strutture e personale dedicato, soprattutto in alcune regioni. Tuttavia, in ottica pragmatica, alla luce delle note sofferenze del Sistema Sanitario Nazionale in termini di finanziamenti e organici, è necessario trovare anche soluzioni innovative e alternative ai programmi classicamente espletati in contesti ospedalieri.
Quali dunque le soluzioni che proponete?
Una proposta importante è aumentare nella classe medica la cultura della “priorità” all’intervento riabilitativo, valutandone precisamente il grado di necessità – non solo in termini di recupero motorio ma soprattutto in termini di rischio residuo di ulteriore instabilizzazione clinica ed eventi cardiovascolari successivi – in modo che venga irrinunciabilmente assicurato. In questo modo il cardiologo riabilitatore (insieme al fondamentale team di infermieri, fisioterapisti, dietisti, psicologi) potrà veramente effettuare un progetto di cura rispondente ai bisogni reali della Persona. Questo contesto altamente specializzato e collocato nel mondo della “scienza cardiologica” rappresenta, inoltre, la migliore soluzione per la prescrizione critica e la gestione mirata delle nuove terapie (spesso ad alto costo) oggi disponibili per il paziente cardiopatico, come ad esempio i più avanzati trattamenti di modulazione genica per la riduzione del colesterolo o le terapie antiscompenso. Non da ultimo, per sfruttare pienamente le potenzialità della Cardiologia Riabilitativa, è necessario promuovere una legislazione e una regolamentazione adeguate alle attività di riabilitazione da remoto (teleriabilitazione), non solo come “semplice” ampliamento dell’offerta, ma anche come garanzia di continuità delle cure nel lungo periodo, e ausilio ai servizi per la cronicità.
La telemedicina è, appunto, al centro delle strategie del PNRR.
Con l’elaborazione del Piano di Ripresa e Resilienza si è assistito a un grande impulso per la realizzazione di percorsi di telemedicina, e attualmente è stata effettuata una profonda riflessione su cosa si intende precisamente per “televisita”, “teleconsulto”, “teleassistenza”, “telemonitoraggio”, “telecontrollo”, e via dicendo. Anche il termine “teleriabilitazione” è stato oggetto di messa a punto, e come ITACARE-P auspichiamo una precisa delineazione della “teleriabilitazione cardiologica”. In questo contesto vi sono molte questioni ancora aperte, come ad esempio: i criteri di referral e, soprattutto, di priorità all’avvio di un percorso riabilitativo da remoto; le caratteristiche strutturali e di performance dei centri erogatori; la dotazione tecnologica necessaria, già in proiezione della futura introduzione sul mercato di vere e proprie “terapie digitali”, ovvero sistemi esperti in grado di modulare ed erogare direttamente alcune modalità di intervento; gli standard di risultato e i criteri di rimborsabilità da parte del Sistema Sanitario Nazionale. E su questo ultimo punto mi vorrei soffermare.
Prego.
E’ una questione particolarmente delicata: non sarebbe infatti auspicabile una corsa alla semplice “minimizzazione dei costi” delle prestazioni di teleriabilitazione cardiologica, in quanto potenzialmente limitante la possibilità di erogare veramente tutti i componenti necessari al paziente cardiopatico (la sorveglianza specialistica, il training individuale da eseguire anche in una sicura modalità asincrona, il supporto psicologico e nutrizionale) e di coinvolgere attivamente tutti i professionisti sanitari che compongono il team multidisciplinare. Promuovere la cultura della teleriabilitazione cardiologica in questo senso non vuole dire creare un semplice intervento “light”, fruibile con comodità dal paziente al proprio domicilio e quindi a basso costo, ma predisporre e governare un’offerta di cure professionale, omnicomprensiva, tecnologicamente avanzata, fruibile da parte di tutti e soprattutto veramente garante di un miglioramento della qualità di vita e della prognosi a distanza.