Un’immagine che racconta una storia: quella del nostro Pianeta.
Un pallone da calcio o da pallavolo, fatto per lo più di plastica, galleggia in mare. Sotto il pelo dell’acqua e attaccata alla palla, una colonia di crostacei che, normalmente, si dovrebbero trovare sulle rocce. I peduncolata, questo il nome di questa famiglia di Artropodi, sono originari dei Tropici. Il pallone, nuova casa delle creature acquatiche, è stato trovato al largo delle coste del Dorset, nel Regno Unito.
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Una distanza – in linea d’aria – di 7538 chilometri, quasi sei volte e mezzo la lunghezza dell’Italia. È il percorso che ha compiuto il “vagabondo dell’oceano”.
Si intitola “Ocean Drifter” ed è stata scattata da Ryan Stalker: è la foto vincitrice del British Wildlife Photography Awards, un concorso che premia i migliori scatti dedicati alla natura e agli animali del Regno Unito.
La foto ha riacceso il dibattito sull’effetto dell’agire dell’uomo sugli ecosistemi, sull’inquinamento e sulla presenza di nano e microplastiche nel nostro organismo.
A proposito di microplastiche in ambiente marino
La produzione mondiale di plastica aumenta continuamente ed in modo esponenziale. Solo in un anno (dati del 2023), l’umanità genera circa 430 milioni di tonnellate di plastica, metà delle quali monouso (quindi, progettate per essere utilizzate una sola volta). Secondo il World Economic Forum, entro il 2060 l’uso della plastica triplicherà, spingendosi fino a 1,3 miliardi di tonnellate. Per avere un’idea della crescita, nel 1950 venivano prodotti 1,5 milioni di tonnellate di plastica in tutto il mondo.
Il rifiuto, da mera dimenticanza o semplice gesto inconsapevole e superficiale, entra in acqua. Circa 11 milioni di tonnellate di rifiuti di plastica finiscono, infatti, negli oceani, raggiungendo poi una quota di 19-23 milioni di tonnellate se calcoliamo anche quelli sversati nei fiumi e nei laghi. Un team internazionale di ricercatori ha osservato che solo sulla superficie dell’acqua galleggiano tra gli 82mila e i 358mila miliardi di particelle di plastica, contaminando la catena alimentare a partire dalle fondamenta.
Dalle profondità dell’oceano al corpo umano
«L’ingestione di microplastiche è stata registrata a tutti i livelli della catena trofica marina – spiega Giuseppe Arcangeli, medico veterinario, Direttore del Centro di referenza nazionale per lo studio e la diagnosi delle malattie dei pesci, dei molluschi e dei crostacei e Direttore del Centro specialistico ittico, presso l’IZS delle Venezie, interpellato per One Health –, dai minuscoli organismi planctonici ai grandi mammiferi. Tra questi ci sono i molluschi bivalvi, ostriche, cozze e vongole, abbondanti nell’ambiente marino e di grande importanza per il funzionamento dell’ecosistema. Si tratta di organismi filtratori, direttamente esposti ad un accumulo di micro e nanoplastiche, e preda – a loro volta – di altri organismi marini, inclusi pesci, uccelli e mammiferi.
Quando tali sostanze entrano nel sistema digestivo umano rilasciano additivi, tossine e batteri, che potrebbero risultare fattori di rischio per stress fisici, chimici e biologici. Inoltre, le nanoplastiche possono essere ulteriormente assorbite dalle cellule. Gli stessi batteri possono essere anche modificati nella loro normale attività ed essere portatori di antibiotico-resistenza, così come interagire con altri contaminanti, come inquinanti organici persistenti (POP) o metalli pesanti».
Le microplastiche, infatti, secondo uno studio condotto da Enea e Cnr, interagiscono con gli organismi, modificandone il patrimonio genetico e provocando effetti dannosi su ecosistemi, animali e popolazioni intere. Le più piccole e tossiche particelle di plastica arrivano sulle nostre tavole e si muovono facilmente nel corpo umano, finendo nel sangue, nell’intestino, nei polmoni, fino anche nella placenta della mamma e nei neonati.
Focus sul nostro Mar Mediterraneo
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«Se poi rivolgiamo lo sguardo a ciò che è a noi più vicino – sottolinea ancora il dottor Arcangeli –, possiamo renderci conto che anche la biodiversità del mare Mediterraneo, uno dei più ricchi in quanto a numero di specie animali e vegetali, è sempre più minacciata.
La crisi climatica negli ultimi decenni ha permesso l’acclimatamento di numerose specie provenienti dallo stretto di Gibilterra e, soprattutto, dal canale di Suez. Dal Mar Rosso, poi, provengono varie specie a loro volta di origine Indo-Pacifica. Sono centinaia le specie ittiche esotiche o, meglio, ‘aliene’ che si sono ormai adattate nel Mar Mediterraneo, con problemi di competizione per la ittiofauna autoctona. Questo fenomeno ha risvolti anche sanitari: ad esempio, il pesce palla Lagocephalus sceleratus, di origine indopacifica, è tossico se ingerito.
L’introduzione di specie esotiche avviene anche per altre vie, come le acque di zavorra delle navi che dagli oceani arrivano ai nostri mari. È così che sono arrivate specie come l’ormai tristemente famoso granchio blu (Callinectes sapidus), che sta decimando gli stock di molluschi bivalvi allevati nelle nostre lagune, o come anche microalghe tossiche che, se concentrate dai bivalvi, li rendono non commestibili per l’uomo. Anche le macro plastiche galleggianti nei mari e negli oceani sono un formidabile veicolo di specie aliene: spugne, crostacei, bivalvi, alghe aderiscono a questi nuovi substrati e vengono veicolati ovunque, se trovano l’ambiente adatto si riproducono, ed il gioco è fatto».
Il rapporto di valutazione globale delle Nazioni Unite
Dunque, la storia che racconta la foto di Ryan Stalker è quella dell’inquinamento del nostro tempo, dell’impatto degli esseri umani sugli ecosistemi del nostro pianeta. I nostri gesti, anche quelli più innocui, come dimenticare un pallone sulla spiaggia quando il gioco è finito, hanno conseguenze imprevedibili e che si protraggono negli anni.
Si chiama – non a caso – “Antropocene”: è il termine scelto da scienziati, divulgatori e narratori per descrivere il nostro tempo. È “l’era dell’essere umano”, quella in cui la nostra specie soverchia la natura, alterando gli equilibri del Pianeta. Con ripercussioni sulla nostra salute.
Secondo il rapporto di valutazione globale delle Nazioni Unite (IPCC, 2021), compilato in tre anni da oltre 450 scienziati e diplomatici, la natura viene distrutta a un ritmo da decine a centinaia di volte superiore alla media degli ultimi 10 milioni di anni. I sistemi naturali che supportano la vita sulla Terra sono in declino: basti pensare alle barriere coralline che si spengono sotto gli oceani e alle foreste pluviali che si trasformano in savane. La biomassa dei mammiferi selvatici è diminuita dell’82%, gli ecosistemi naturali hanno perso circa la metà della propria superficie, un milione di specie sono a rischio di estinzione. Solo il 13% degli oceani del mondo non è stato attaccato dall’impatto dannoso dell’umanità: al di fuori delle aree più remote del Pacifico e dei poli, praticamente nessun oceano ospita livelli naturalmente elevati di fauna marina. E le enormi flotte di pesca, il trasporto marittimo globale e l’inquinamento proveniente dalla terraferma si combinano con il cambiamento climatico per degradare gli oceani.
Tutto ciò, ed in gran parte, a causa delle azioni dell’uomo.