«Viviamo in un Paese fatto di funzionari che giocano al “piccolo chimico”: non conoscono il nostro mestiere, non sono calati nella realtà e non si confrontano con chi questa realtà deve applicarla (noi)». Non va per il sottile Silvestro Scotti, medico di famiglia, docente e Segretario Generale della Fimmg, la Federazione Italiana dei Medici di Medicina Generale.
In questa intervista esclusiva rilasciata a OneHealth risponde, senza mezzi termini, alle domande sul Pnrr, sul lascito del Covid-19, sul futuro dei giovani medici e della medicina territoriale. Ha le idee chiare, sulle “case di comunità”, ad esempio: lui, che per comprendere le realtà delle zone disagiate ha battuto in prima persona quelle strade e incontrato i pazienti, la cui età media si è molto abbassata. “La paura della malattia e la paura della morte sono divenute intergenerazionali. Siamo un popolo di ipocondriaci: e ciò può essere un vantaggio solo se riusciamo a sfruttare la paura indirizzandola verso la prevenzione”, ci spiega.
Segretario, negli ultimi 15 anni il nostro Paese ha visto fuggire, tra medici di famiglia, pediatri e guardie mediche quasi 14 mila camici bianchi. Considerando solo i medici di medicina generale in 10 anni si è registrato un calo vertiginoso di oltre 10mila professionisti. E la situazione non sembra migliorare. Quali sono, secondo lei, le ragioni di questo trend negativo?
Il dato è significativo. È vero che negli ultimi 15 anni abbiamo perso “quasi 14mila camici bianchi”, ma è necessario fare una precisazione. Ad esempio, uno degli elementi che ha alterato il dato, ed è sfuggito al controllo, è stato il Covid-19. La pandemia, infatti, ha accelerato il processo di pensionamento e ha contribuito al drastico calo del numero: molte sono state le vittime del Covid fra i medici, e questo perché il Medico di Medicina Generale era il primo contatto con il malato sul territorio, esattamente come l’infermiere (e anche fra loro ci sono state troppe vittime) lo era in Ospedale.
Nel 2008, invece, andavano in pensione circa 300/400 medici all’anno, e il numero è cambiato drasticamente negli ultimi anni, che sono poi quelli che hanno creato lo sbilanciamento nella cifra finale. Ultimamente, e fino al 2025, stanno andando – e andranno – in pensione circa 4000/4500 medici ogni anno.
Purtroppo, è un dato che poteva essere previsto, e la Federazione Italiana dei Medici di Medicina Generale lo sta denunciando da 15 anni, appunto. Sarebbe bastato fare un semplice calcolo matematico, alla portata di tutti: i Medici di Famiglia sono calcolati sulla base della popolazione assistibile, e l’età della pensione è conosciuta (68-70 anni). Ancora: viviamo in un Paese in cui ogni cittadino dopo i 65 anni di età presenta almeno una cronicità, e il medico – fuori dalla professione – è anch’egli un possibile paziente che ha bisogno di cure, dunque possiamo conseguentemente pensare che non possa essere escluso da tale casistica.
La scelta di diventare un Medico di Medicina Generale forse non è più attrattiva? Quali le contromisure da prendere nel breve e nel lungo periodo?
Purtroppo è opinione comune ritenere che, proprio nel 2020, la medicina territoriale abbia fallito. Io non la penso così. Credo, invece, che sia stata una sconfitta della gestione manageriale della medicina territoriale, non di quella medicina che ha continuato a curare.
Fare il Medico di Medicina Generale è una scelta di vita stressante e – purtroppo – poco attrattiva: la giornata di lavoro non finisce mai, è un susseguirsi di responsabilità da assumere, e la persona vive costantemente in tensione con il sé professionista per la necessità di fornire continuamente assistenza. Premesso questo, chi avrebbe, oggi, il coraggio di fare il Medico? Gli elementi caratterizzanti e migliori di questo lavoro sono la libera scelta del cittadino, il rapporto fiduciario con i pazienti, insieme alla continuità di cura. Oggi la libera scelta è messa in discussione dalla carenza di medici: la carenza di medici comporta che i pochi che ci sono arrivino prima al raggiungimento del proprio massimale e, di conseguenza, sempre meno cittadini potranno far valere il proprio diritto di scelta del medico curante.
Diminuito il numero di camici bianchi, messo a rischio il rapporto fiduciario, l’immagine della professione sminuita dalla stampa che ci dipinge come “fannulloni”: è il caos generale, e i giovani non hanno alcuno stimolo a operare questa scelta di vita e professionale.
Da qui al 2031 i giovani formati copriranno solo la metà dei 20 mila medici di famiglia destinati ad andare in pensione. Esiste dunque un problema di carenza e ricambio del personale? E di formazione? Sul tavolo del Ministro della Salute esiste anche la richiesta di creare nuovi percorsi formativi o una specializzazione accademica ad hoc per i mmg. Che cosa potrebbe cambiare?
La creazione di percorsi accademici ad hoc potrebbe essere un modello di attrattività per molti giovani medici.
Un primo – semplice – passo potrebbe essere quello di cambiare il nome al corso per la Medicina Generale: ad oggi, abbiamo il diploma di specializzazione da una parte (che noi tutti, erroneamente, chiamiamo solo “specializzazione”), e il diploma di formazione specifica di medicina generale dall’altro. Si tratta di due diplomi equiparabili, o di due cose diverse?
Il secondo passo deve essere quello di creare una disciplina chiara e specifica, identificata come le altre discipline accademiche già codificate.
Ancora, deve cambiare il territorio: il diploma di formazione specifica di medicina generale è un corso regionale di cui la Regione poco si cura. Esistono differenze territoriali, dunque perché non far vivere un’esperienza appropriata ai giovani medici? Fare il medico di base in un paesino di montagna (invece che nella grande città) può dare delle motivazioni e delle soddisfazioni, ma solo se le si conosce. È una sfida che deve essere accolta con coscienza e coraggio.
Infine, deve essere riconosciuto un valore formativo accreditato, quindi attribuire le caratteristiche di docenza alla disciplina. Quella del Medico di Famiglia è una professione estremamente difficile ed entusiasmante allo stesso tempo, che deve tornare a stimolare i giovani medici e che deve trovare riconoscimento in un percorso ad hoc.
Non sono i sintomi della malattia i protagonisti della conversazione con il paziente, ma la vita del paziente stesso: l’intervento del Medico è anche di tipo psico-socio-sanitario, non meramente sanitario. E questo come può essere insegnato, se non con l’esempio all’interno di un ambulatorio, da docente ad allievo?
Non solo più medici e più studi sul territorio, ma anche apparecchiature diagnostiche, assistenti socio-sanitari e la possibilità di eseguire un triage ambulatoriale. Che cosa cambierebbe? E come migliorerebbe l’assistenza?
Un ambulatorio, per poter funzionare come una impresa – cosa che, alla fine, è –, necessita di almeno una persona in segreteria, che si occupi delle richieste in arrivo ed esegua un primo, sommario, triage; degli operatori socio sanitari con una formazione specifica, che si occupino di un triage di secondo livello con una diagnosi sommaria; un medico in formazione e il medico di famiglia, che potrebbe essere affiancato da uno psicologo.
Non solo persone però, anche apparecchiature diagnostiche: l’averle ci permetterebbe di svolgere meglio il nostro lavoro, offrire una cura più efficace, e contribuire a svuotare gli ospedali, per prima cosa abbattendo le liste d’attesa.
Nel Pnrr si parla delle COT, le centrali operative territoriali: il medico di base ha bisogno – oltre al proprio ambulatorio – di mini cot, quindi una centrale di competenza distaccata che aiuterebbe molto le zone disagiate, per essere più vicini a tutti.
L’ambulatorio è, dunque, un’impresa, e il medico ha la responsabilità di auto organizzarsi, di investire nel proprio studio: per rendere più fruibile la cura ai cittadini e per migliorare l’assistenza.
Nella sua relazione di apertura dell’81° congresso nazionale Fimmg ha sostenuto con forza e a più riprese la necessità di “rompere i muri per arrivare alla cura”, un richiamo forte a tutela del principio di accesso universale alle cure sanitarie, superando barriere economiche, sociali e territoriali. A che punto siamo di questo percorso?
In sanità, e nel caso specifico il Pnrr, sembra che ci si interessi soprattutto di innalzare mura e costruire strutture, intervenendo poco sulle dinamiche motivazionali e di interesse professionale del personale coinvolto.
Non è in questo modo che si può pensare e – poi – realizzare un progetto di assistenza territoriale efficace. Il territorio è liquido e così deve essere l’assistenza.
Esistono zone disagiate, paesi con pochi abitanti sparsi su un terreno complicato, pochi – o nulli – mezzi di trasporto pubblici, e un centro di assistenza – ospedale o ambulatorio che sia – troppo lontani e quindi inutili.
Ancora, esistono barriere economiche, sociali e territoriali: la sanità dovrebbe abbatterle una dopo l’altra, permettendo un accesso uguale per tutti alle cure, lavorando finanche sulla logistica.
Il Pnrr vuole costruire le case di comunità: queste sono mura che, per come pensate, allontanano sempre di più gli anziani, i fragili e i bisognosi dall’assistenza che necessitano.
Un progetto che accentra e non decentra l’assistenza non è quello che serve.
Tra i fondi stanziati per la sanità con il Pnrr, una gran parte andrà alla creazione delle “case di comunità”: cosa ne pensano i Medici di Medicina Generale? Perché vi accusano di non esservi opposti fermamente alla loro realizzazione?
I Medici di Medicina Generale non sono stati consultati. E spesso l’amministrazione della sanità è gestita da chi il territorio lo conosce poco. Viviamo in un Paese fatto di funzionari che giocano al “piccolo chimico”: non conoscono il nostro mestiere, non sono calati nella realtà e non si confrontano con chi questa realtà deve applicarla (noi).
Sulle case di comunità, chi esercita questa professione e la vive ogni giorno è stato poco coinvolto, soprattutto nelle fasi di presentazione in Europa del progetto, come nemmeno i cittadini, che invece saranno i fruitori delle case di comunità.
Il progetto è pensato per costruire – ancora una volta – delle “mura”.
Inoltre, viene calcolata 1 casa ogni 50.000 abitanti: ma nelle zone disagiate qual è il vantaggio? In Italia circa 15milioni di abitanti, circa un quarto della popolazione totale, vivono in comuni sotto i 5mila abitanti, e solitamente si tratta dei soggetti più anziani che troveranno 1 sola casa nel raggio di 200 chilometri. Troppi fattori non sono stati tenuti in considerazione, come i tempi di percorrenza di quelle Regioni, la tipologia delle strade non facili, il fatto che il mezzo più utilizzato sia quello proprio, e da ultimo – ma non meno importante – è che quelle stesse case allontanano dall’assistenza proprio i soggetti che più ne avranno bisogno. Il risultato sarà avere molte case di comunità in città, e poche in quei territori più ostici da raggiungere: uno spreco di risorse, un investimento inutile e nessun aiuto a chi ne ha bisogno. Non so come questi investimenti potranno diventare valore assistenziale senza una rete che le sostenga.
Ecco perché noi, invece, proponiamo sì un modello di “case di comunità”, ma che siano “spoke”: tanti piccoli centri con dei gruppi di medici e con importanti aiuti per la questione logistica. Un sistema organizzato di medicina generale che riduca la dispersione, anche attraverso la tecnologia, a favore della prossimità.
Che cosa chiedono i Medici di Medicina Generale con la nuova convenzione contrattuale 2019/2021?
Rinnovarla in fretta e concordare gli ambiti che permettano di intervenire sul privato, affinché il privato entri in economia di scala nel pubblico. Il privato ha sempre più bisogno della selezione da parte del medico di cure primarie per accedere a quella prestazione, e se non si propone la possibilità che il Medico di Medicina Generale sia lo snodo per le offerte del pubblico e privato, questi entrano in competizione.
Ancora, siamo riconosciuti come liberi professionisti ma – e qui sta l’ironia – siamo considerati incompatibili con la libera professione, perché inquadrati nel sistema pubblico: vogliamo che anche questo aspetti cambi con la nuova convenzione, rendendo più evidente il nostro stato di liberi professionisti anche nei rapporti pubblico/privati.
Nelle scorse settimane il Ministro Schillaci ha annunciato un incremento del Fondo Sanitario Nazionale di 7 miliardi nei prossimi tre anni. Secondo il Sottosegretario Gemmato stiamo parlando di “un picco mai sfiorato nella storia repubblicana”. E poi c’è la manovra. Siete soddisfatti di quanto fatto fino ad ora dal Governo?
Noi Medici di Medicina Generale riteniamo che ci sia la necessità di un intervento sulla medicina territoriale, e speriamo che quei 7 miliardi previsti coinvolgano anche noi direttamente, magari con un riconoscimento della nostra professionalità.
La Legge di Bilancio mostra attenzione alla sanità nella difficile congiuntura economica nazionale e internazionale; riteniamo sia una buona notizia che nell’ambito dei rinnovi contrattuali e nel fondo dedicato al personale sanitario sia stata ricompresa anche la medicina convenzionata.
Quasi nove italiani su dieci si affidano a Google per cercare diagnosi e cure per la propria salute. Il 91% degli italiani nell’ultimo anno si è recato in farmacia per comprare farmaci da banco e l’88% per ritirare medicinali di prescrizione medica. In entrambi i casi, circa due terzi sono poi ritornati più di una volta. Al medico di famiglia, invece, si sono rivolte otto persone su dieci. La professione sta perdendo fiducia? Perché è pericoloso non affidarsi al proprio medico di famiglia?
Il Covid-19 non solo ha segnato le nostre vite, ma ha stravolto il nostro lavoro.
Oggi, contiamo meno presenze fisiche negli studi, e – conseguentemente – più contatti informatici. I nostri rapporti con i pazienti sono aumentati del 200%. Per rendere l’idea: se sommiamo le domande rivolte al Dottor Google e gli accessi in Farmacia, abbiamo il numero totale dei contatti con il proprio Medico di famiglia (!).
Un dato rilevante è che l’età media dei pazienti negli studi si è abbassata drasticamente (di circa 30 anni): la sala d’attesa del mio ambulatorio ospita oggi molti più giovani, mentre prima erano quasi esclusivamente anziani che non avevano bisogno sempre di una vera e propria assistenza medica, ma di una ricetta (che ora, per fortuna, è elettronica) o di un supporto socio-psicologico.
Il Covid ci ha quasi fatto un favore: adesso chiunque pone maggiore attenzione alla propria salute.
La paura della malattia e la paura della morte sono divenuta intergenerazionali. Siamo un popolo di ipocondriaci: e ciò può essere un vantaggio solo se riusciamo a sfruttare la paura indirizzandola verso la prevenzione. I cittadini hanno imparato la lezione, ora è compito dei medici imparare, facendo un forte investimento sulla medicina di iniziativa, e sulla prevenzione sia primaria che secondaria.
Che fine hanno fatto gli eroi del covid? La lezione della pandemia non ci ha insegnato nulla in materia di Salute?
Non esistono eroi: i medici svolgono solo il proprio mestiere. Scegliendola, sanno che ci sono dei rischi legati alla professione, e non ci si può tirare indietro.
Esiste, però, un grave problema: quello della dialettica degli eroi. Seguita poi da un’aggressione alla categoria.
I cittadini sono scettici, quindi, di fronte al Servizio Sanitario. Per colpa dei comunicatori, e per colpa di tutta la burocrazia che trasforma il Medico in un nemico che limita le cure. Voglio proporre una riflessione, in merito all’accesso alle cure. Quale si considera una civiltà? Quella che assiste prima i più fragili o mediamente tutti alla stessa maniera? È ciò che conferisce il valore etico al lavoro del Medico di medicina generale rispetto all’accesso alle cure.
Ecco come vedo la Medicina che svolgiamo: la possibilità di dare accesso alle prestazioni di cura a tutti indistintamente.
Un paziente su dieci tra quelli che contattano i Medici di Famiglia sono colpiti da influenza. Come fare per riconoscerla?
In questo momento abbiamo un picco esponenziale: anche se non si distingue più l’influenza da altre malattie respiratorie virali, compreso il Covid. La tendenza è all’aumento: circa 10 casi su 1000 cittadini che entrano in contatto con una malattia respiratoria. Se guardiamo la curva di crescita della nuova statistica, in realtà, notiamo che l’anno scorso nello stesso periodo c’erano 4 casi di più, che contenevano anche il covid. A parità di settimana quest’anno c’è minore incidenza.
Come un Babbo Natale, ho consigliato ai miei pazienti di regalarsi e regalare un vaccino per Natale. Comunque, il differenziale lo fa il tampone. E’ difficile riconoscerla, dal momento che non ci sono malattie con segni evidenti diversi rispetto alle altre. Appartengono alla famiglia delle infezioni del sistema respiratorio, i cui segni particolari sono il naso chiuso (se è covid, in particolare, c’è raffreddore senza produttività) e dolore alla gola.
A questo punto, approfittiamo anche noi di una consulenza: come curarla?
Questa la cura: sintomatici come il paracetamolo per la febbre, dei mucolitici se il muco è tale da impedire una normale respirazione che non permetterebbe di riposare durante la notte, una alimentazione leggera a base di frutta e verdura, assumere tanti liquidi.
Curando l’influenza, non curiamo solo noi stessi ma la società civile tutta: quindi, le raccomandazioni da non dimenticare mai sono quelle di disinfettare le mani, mettere da parte fazzoletti usati e indossare la mascherina.
La cosa più importante è di evitare gli antibiotici senza una prescrizione né una valutazione del Medico di famiglia: a causa di una eccessiva assunzione, la resistenza agli antibiotici sarà la nuova pandemia di domani.