Renato Ariatti è neuropsichiatra, professore di psichiatria forense all’Università di Bologna, volto noto dei media e perito richiesto dai tribunali per i più noti casi giudiziari italiani, da Bernardo Provenzano ad Anna Maria Franzoni, fino ai più recenti casi di cronaca che hanno scosso l’opinione pubblica del paese. Ma oltre a tutto questo Ariatti è, soprattutto, un fine conoscitore della società italiana, capace di interpretarla attraverso le fragilità individuali che sono spesso lo specchio, tra causa ed effetto, di orientamenti e problematiche sociali.
Un tema attualissimo, oggi, è quello del femminicidio.
Un cambiamento culturale che, per i protagonisti di questi delitti, non c’è stato. Senza scomodare i concetti di patriarcato e matriarcato, scivolosi perché spesso etichettati oggi in senso ideologico, per ragionare sul femminicidio dobbiamo sempre pensare che fino al 1981 in Italia esisteva il delitto d’onore, esplicitazione chiara e lampante di come il delitto possa essere interpretato non tanto come tale, ma come riparazione di una lesa immagine dell’uomo per il tradimento della donna. Siamo al 2024 e la donna, oggi, ha conquistato, e continua – per fortuna -, ad ampliare i propri spazi di autonomia, autorevolezza e competitività. È padrona della propria vita, delle proprie scelte affettive e delle proprie scelte sessuali. È un’autonomia in espansione anche in ambito familiare, e pur nella sua intrinseca positività essa risulta destabilizzante per tutta quella platea di uomini che non sono stati in grado in questi anni di comprendere e adeguarsi a questo sviluppo di parametri e valori. Ci sono degli uomini che, magari anche inconsciamente, non tollerano questo attacco al loro ruolo, nella loro mente legittimato ancora oggi dalla quotidianità e da una prassi di decenni. Ci sono uomini che lo vivono attraverso un vuoto depressivo, altri che esternano tutta la loro rabbia che sfocia in alcuni casi estremi e terribili in questi femminicidi.
La delusione amorosa, quando diventa ossessione patologica?
Oggi abbiamo un problema legato al femminicidio, perché attraverso la spinta dell’opinione pubblica sembra che debba essere valutato e giudicato in maniera diversa da un omicidio qualunque, ma il codice vigente, che non prevede differenze, è una cosa, l’orientamento politico e l’opinione pubblica sono altro. Mi spiego. Per tanti altri reati la perizia psichiatrica è pacificamente ammessa e si può ragionevolmente sostenere che alcuni reati possano essere frutto della follia, o al contrario, in assenza di patologia psichiatrica riconosciuta, soltanto di malvagità, antisocialità o delinquenza comune. Nei femminicidi vige, invece, sempre di più un orientamento che tende a negare qualsiasi possibilità che l’uomo possa essere soggetto a patologia psichiatrica. Ma se su 10 casi, 9 volte l’uomo è soltanto malvagio, cattivo o ferito nella sua gelosia patologica, esiste quell’unico caso in cui è affetto da patologia psichiatrica, e si deve poterlo dire. Occorrerebbe sempre equilibrio.
Quale potrebbe essere, quell’unico caso?
Fino a quando la gelosia sfocia nell’ossessione, nella necessità di avere il controllo continuo della vita dell’altro, non siamo ancora in presenza di patologia psichiatrica. Questa si palesa quando l’ossessione esce dalla realtà, l’individuo si convince e si fomenta anche in assenza di prove oggettive. Finché c’è un dubbio esasperato che porta a un eccesso di controllo non è una patologia, è un’esasperazione delle comuni passioni. Quando esce dalla realtà, pensate al caso di chi si immagina tradimenti o fatti inesistenti per giustificare la propria ossessione, allora entriamo nel delirio, e quella è malattia mentale.
Diceva che servirebbe equilibrio, nelle aule di Tribunale. In Italia, spesso, i processi sono dibattuti prima nei media che in aula. Il processo mediatico e l’opinione pubblica influenzano il giudizio?
Evidentemente sì. Guardi, io ho una sincera stima nei confronti della stragrande maggioranza dei magistrati, che sono costretti a muoversi nell’ambito di condizioni quasi mai neutre e serene, con fortissime pressioni da parte anche dell’opinione pubblica. Ma mi permetta di dire anche che in Italia, sulla ricerca del colpevole, abbiamo prima che un problema giudiziario un problema culturale.
Si spieghi.
Le persone vogliono un colpevole. Quando una sentenza di condanna si trasforma in un’assoluzione, in contrasto con le aspettative del pubblico ma magari legittimata da una patologia psichiatrica riconosciuta, ecco che la sentenza assolutoria viene accolta con aggressività, se non addirittura rabbia. Parliamo tanto e giustamente della presunzione di innocenza, ma dobbiamo dirci con sincerità che questa non interessa all’opinione pubblica. La nostra società, con i media che ne sono un riflesso, si nutre di una vera e propria passione per il crimine e i fatti di cronaca nera sono quasi sempre molto orientati verso delle attese colpevoliste. In questo contesto non è facile mantenere l’equilibrio da parte dei giudici e dei pubblici ministeri, che sono sempre essere umani e che devono reagire con indipendenza a questa spinta sia mediatica che culturale.
Come resistere quindi a queste pressioni mediatiche e culturali, da parte dei magistrati? E come trovare un equilibrio sul valore della perizia psichiatrica nel processo penale, soltanto in alcuni casi considerata davvero rilevante?
Ci sono pubblici ministeri che, in quanto tali, sposano per definizione una posizione accusatoria e colpevolista, ma per fortuna non sono la maggioranza, a differenza di quei tanti loro colleghi che ricordano la prima regola di un pubblico ministero, che è quella di non innamorarsi di un teorema accusatorio, bensì lavorare per l’accertamento della verità, ricercando tutti gli elementi utili alla risoluzione del caso. In questo senso il pubblico ministero che ha chiesto la revisione del processo sulla strage di Erba, al di là di qualsiasi considerazione sul caso specifico che non interessa in questa sede, è certamente un uomo coraggioso. E tornando al valore della perizia psichiatrica, questa se è necessaria all’accertamento della verità deve essere disposta, senza cedere alle pressioni mediatiche, culturali o dell’opinione pubblica che ricercano a tutti i costi un colpevole senza voler comprendere, magari, le fondamenta di gesti tanto assurdi e odiosi.
L’individuo soggetto a processo, magari ingiustamente o per anni, può subire danni anche psicologici irreversibili?
Assolutamente sì, ma questo è un problema purtroppo irrisolvibile finché ogni giudizio penale anche a livello locale sarà accompagnato da tali pressioni, mediatiche e culturali. Le vite delle persone andrebbero valutate nello spazio neutrale di un giusto processo, e lo spazio mediatico che anticipa quello giudiziario oggi non lo è, con dei risultati disastrosi sulla vita delle persone che, agli occhi dell’opinione pubblica, sono immediatamente condannate e subiscono quindi un giudizio inappellabile da chi hanno intorno. Regge soltanto chi ha le spalle più larghe, partendo da una famiglia solida.
E l’istituto familiare, oggi, è in crisi.
Decisamente sì. Cinquant’anni fa, semplicemente, non ci si poteva separare. I nostri genitori o i nostri nonni vivevano tutta la vita anche situazioni infelici, ma non si poteva rompere. Se questa forma di ingessatura era sbagliata, ora i patti matrimoniali si rompono con fin troppa facilità o addirittura non nascono, perché i giovani hanno perso fiducia. Come dargli torto del resto: la separazione è all’ordine del giorno, le coppie si disfano e le famiglie sono sempre più allargate e sia chiaro, tutto va benissimo fino a che rientriamo all’interno del buon senso e dell’equilibrio. Ma possono emergere anche delle situazioni in cui la rabbia, la rivalsa, l’incapacità di tollerare la fine del proprio sogno sfociano nella violenza, anche psicologica.
Nelle situazioni familiari infelici, o dopo le separazioni, la sindrome di Medea non appartiene a casi isolati. I figli soffrono le colpe dei genitori.
La triangolazione della vendetta trasversale sui figli è terribile, è una forma estrema di alienazione genitoriale. Non accetto la separazione, quindi per punirti colpisco il figlio, la cosa che abbiamo insieme più cara e l’ultimo anello che ci unisce: una visione patologica della famiglia e pericolosissima, ma purtroppo più frequente di quanto immaginiamo. Abbiamo vissuto anche i casi estremi delle madri assassine, ma osserviamo purtroppo casi molto più frequenti e non sono tutti genitori malati di mente: la ferocia e l’estrema crudeltà del gesto non sono, da soli, sinonimi di malattia mentale. In queste forme di vendetta trasversale, quasi sempre prevale proprio questa volontà crudele di colpire l’altro. I fatti di cronaca anche recente sono sempre più ampi, più spesso è l’uomo ma anche la donna è tristemente protagonista. Penso a quel padre che a inizio anno ha lanciato la propria figlia di cinque anni dal terrazzo e poi si è buttato anche lui, in un tentativo di omicidio e suicidio per fortuna non andato a buon fine. Lo stesso gesto, pochi giorni dopo, è stato compiuto da una donna. In quel caso la figlia è morta.
Si può ricostruire un rapporto in cui si è rotta la fiducia in un modo sano? Tra cronaca e relazioni sempre più in crisi, c’è chi ha paura addirittura a tentare di riavvicinarsi.
Si può, per fortuna. Se si perde realmente la fiducia, le donne sono molto più decise degli uomini quando girano pagina. Come dicevamo poco fa, le donne sono diventate molto più autonome e molto più forti, in questa rottura degli schemi. La sacrosanta emancipazione femminile, in ogni campo, ha messo in crisi l’uomo ponendolo in alcuni contesti come sesso debole. Anche per questo è più frequente osservare oggi reazioni di rabbia, di frustrazione, di umiliazione del proprio narcisismo o di non accettazione della crisi del proprio ruolo e, dunque, di gelosia esasperante. Ma voglio essere molto chiaro su questo: la violenza è sempre debolezza, anche e soprattutto quando non è frutto di delirio o patologia. Ma la maggior parte delle volte, per fortuna, le persone sono mature ed equilibrate.
Un altro tema purtroppo tristemente attuale, anche in contesti familiari idilliaci, è quello dei giovani che si sentono costretti a vivere nella menzogna. Pensiamo a quei ragazzi che raccontano di dare gli esami universitari fino al giorno della festa di laurea.
L’impressione che si ricava osservando queste storie è che nel mondo universitario e nel mondo giovanile di oggi, il livello di competitività e di aspettativa sociale e familiare sia decisamente aumentato rispetto a qualche generazione fa. Questi ragazzi, evidentemente, non reggono il carico delle aspettative sociali, familiari o del proprio gruppo di relazioni più strette. Il tema è come reagisce l’individuo all’inizio della menzogna. Mentre la punta dell’iceberg è rappresentata da quei pochi che proseguono la menzogna fino alla festa di laurea, c’è tutta una marea di persone che non arrivano a questo, ma magari a poco prima. La menzogna, piccola, rischia di diventare sempre più grande e la persona rischia di continuare a mentire per anni ed è questo, francamente, un problema irrisolvibile, nel senso che evidentemente è tale il timore della ferita narcisistica di poter deludere prima se stessi, poi la famiglia e la società, che se ne rimane schiacciati. L’unico modo per affrontare la menzogna è confessarla, prima a se stessi e poi a qualcun altro. La fragilità di questi ragazzi, evidentemente, è frutto della mancanza di una comunicazione chiara e trasparente. Potrebbe essere rassicurante in famiglia affrontare da subito il tema dell’insuccesso, della ferita o delle difficoltà, invece si resta fermi all’aspettativa ideale che molti genitori hanno del figlio come prolungamento ideale di loro stessi. Tanti figli non ce la fanno a reggere quest’aspettativa.
E nell’immaginario collettivo, oggi, i giovani di oggi sono addirittura un po’ più bamboccioni.
La genesi è la stessa: l’aspettativa troppo alta, un narcisismo ferito che può essere affrontato anche con l’evitamento. Così troviamo questi ragazzi poco abituati a soffrire, a lottare o a confrontarsi con l’insuccesso: semplicemente li evitano, per non correre il rischio di ferire il proprio io. Un modo diverso di affrontare lo stesso problema, rispetto a chi si cela invece dietro le finte lauree o ad altri percorsi che non sono altro che l’evoluzione della menzogna in realtà parallele. Ma è lo stesso motivo di fondo, poi, di questi narcisisti feriti che creano disastri nelle proprie relazioni, sfogando la propria violenza nei confronti dell’altro. Dovremmo essere tutti più capaci di accettare le nostre sconfitte, e come società dovremmo compiere una seria riflessione su questo.