Contro gli stereotipi di un’Italia a due velocità, con il Meridione spesso tacciato di essere agli ultimi posti, soprattutto nel settore della sanità, il Policlinico di Palermo è stato il primo nel Paese ad impiantare il pacemaker più piccolo al mondo: l’innovativo intervento è avvenuto sotto la guida del Dottor Giuseppe Coppola, in collaborazione di tutta l’équipe di Aritmologia e Cardiologia intensiva dell’Azienda ospedaliera universitaria.
Un nosocomio, il siciliano “Paolo Giaccone”, che dall’inizio dell’anno sta collezionando un successo dopo l’altro, nella clinica, nella ricerca e nella dotazione tecnologica. Interventi all’avanguardia – oltre alla Cardiologia Interventistica – nei campi della Neurochirurgia, Chirurgia Laparoscopica, Vascolare, Ginecologica e Pediatrica.
L’innovativo intervento cardiologico è stato eseguito per via transcatetere, cioè attraverso la vena femorale fino alla cavità cardiaca, su due pazienti, un uomo e una donna: entrambi stanno bene e la loro aspettativa di vita è decisamente tutta un’altra.
Una rivoluzione nel campo dell’Aritmologia: il dispositivo sta nel palmo della mano, ha le dimensioni di una compressa di vitamine, pesa due grammi, è senza piombo, con capacità di monitoraggio da remoto, può salvare delle vite ed è arrivato per restare.
Le parole del Dottor Coppola
“Siamo stati il primo ospedale in Italia – ha raccontato in esclusiva su One Health il dottor Coppola – ad aver adottato la tecnologia Medtronic Micra™ AV2 e Micra™ VR2, la nuova generazione dei pacemaker più piccoli del mondo. Questi nuovi dispositivi miniaturizzati, come quelli della generazione precedente, vengono impiantati per via percutanea dalla vena di una gamba ed eliminano le potenziali complicanze dei pacemaker tradizionali legate agli elettrocateteri e alla “tasca” chirurgica sotto la pelle. La nuova generazione, grazie al 40% di estensione della longevità della batteria permette alla maggior parte dei pazienti di aver bisogno di un solo pacemaker per tutta la vita”.
“Con i giusti investimenti, una buona programmazione ed un elevato standard qualitativo ed umano dei gruppi di lavoro, la sanità pubblica rimane un baluardo di inestimabile valore per la collettività – continua il medico dell’Unità Operativa di Cardiologia, un’eccellenza del territorio per le anomalie del ritmo. Non è facile; richiede impegno, risorse e sacrificio ma rende un servizio scientifico-tecnologico, sanitario e sociale attualmente senza pari. I risultati che stiamo ottenendo sono il frutto di un programma partito anni fa, durante la pandemia, che ha visto la creazione di una sinergia e comunione di intenti tra la nostra unità operativa, le direzioni di dipartimento, sanitaria e generale, e dell’area provveditorato della AOUP “P. Giaccone” per il raggiungimento di risultati conseguenti al notevole potenziamento, nello specifico, dell’aritmologia interventistica”.
Il pacemaker: una storia lunga 70 anni
Il pacemaker è un dispositivo in grado di generare degli impulsi elettrici, che stimolano la contrazione di una o più camere del cuore (atri e/o ventricoli) in caso di disturbi della genesi o della conduzione dell’impulso elettrico, per far sì che il cuore possa svolgere correttamente il suo ruolo di pompa.
Cardiochirurghi e ingegneri hanno nel tempo lavorato in sinergia, a partire dalla prima metà del ‘900, quando venne realizzato un prototipo portatile, con un elettrodo connesso al cuore e la cui stimolazione funzionò soltanto una volta per contrastare un blocco atrio-ventricolare temporaneo.
Il passo successivo fu la creazione di un pacemaker totalmente impiantabile mediante toracotomia, quindi apertura del torace per un’operazione cosiddetta “a cielo aperto”: un dispositivo con due transistor connessi direttamente al miocardio e delle dimensioni di un dischetto da hockey. Il primo paziente, nel 1958, si sottopose alla sperimentazione per contrastare i suoi ripetuti e quotidiani arresti cardiaci: purtroppo, funzionò soltanto per 8 ore. Sostituito immediatamente la mattina successiva, e poi molte altre volte nel tempo, Arne Larsson, questo il nome del paziente svedese che a 43 anni poteva contare solo 20 battiti al minuto (invece dei normali 60/100), sopravvisse per altri 44 anni.
In più di mezzo secolo e innumerevoli sperimentazioni, il pacemaker ha cambiato forma, ingegneria, numero di transistor e tecnica operatoria.
Oggi, a distanza di 66 anni, i pacemaker sono più piccoli di una moneta, hanno fino a 20 milioni di transistor, comunicano in tempo reale con l’esterno, entrano in funzione solo quando il cuore scende sotto la soglia di frequenza stabilita, e per essere impiantati necessitano solo di un piccolo taglio, senza anestesia, per arrivare al cuore attraverso la vena femorale.
Il principio di base è rimasto invariato: regolare il battito cardiaco mediante elettricità.