Era il 22 febbraio 2022 quando è scoppiata la guerra in Ucraina.
In appena 25 mesi, ci sono stati più di 1.500 attacchi alla salute. Ad essere colpiti: personale medico, forniture, strutture, magazzini e trasporti, comprese le ambulanze. Più di cento le persone morte in questi raid, anche i pazienti. Molti di più i feriti, un numero ormai con troppe cifre. L’80% di tutte le strutture sanitarie (ospedali, cliniche mediche e centri paramedici) sono stati completamente o parzialmente danneggiati. Conseguenza inevitabile di ciò, la scarsità di medicinali, il blocco della corrente elettrica, l’interruzione dei servizi sanitari essenziali, la carenza del personale sanitario. A rischio migliaia di vite: di bambini, di mamme e papà, di professionisti, di civili. Di persone malate, per le quali il funzionamento continuo dei macchinari o l’assunzione quotidiana di medicinali è fondamentale, e che non possono sopportare l’interruzione delle cure. E poi ci sono loro: i feriti gravi, i nati prematuri, e i piccoli pazienti oncologici. Bambini che hanno dovuto scoprire troppo presto l’orrore del cancro, la violenza della chemioterapia, la paura di perdere il proprio mondo. E da quel 22 febbraio del 2022, hanno dovuto scoprire anche l’atrocità della guerra, la potenza disumana senza confini, le devastanti conseguenze di un ordigno. Dimenticando la pace e la sicurezza della propria cameretta con i giochi.
È in queste terre sole che operano i volontari di Soleterre, la Fondazione la cui missione è tutelare l’applicazione del diritto alla salute in tutto il mondo.
“Il nostro è un progetto di mondo. Un progetto del fare ma anche del “come” fare. La nostra ambizione è prenderci cura degli altri in un mondo dove l’altro è stato completamente espulso, e dove è più facile farsi la guerra che dialogare. Per noi salute significa giustizia sociale”, ci spiega il suo Presidente, lo psico-oncologo Damiano Rizzi.
Professore, ci racconti del progetto Soleterre. Come è nato?
Soleterre è nata 21 anni fa come associazione di volontariato da un gruppo di individui che avevano fatto esperienze nell’ambito della cooperazione internazionale. Sin da subito, al centro delle attività dell’associazione c’è stata la salute, in particolar modo la salute dei bambini che vivevano nei Paesi che – allora – erano definiti “in via di sviluppo” e che oggi chiamiamo “a medio e basso reddito”. Parliamo, cioè, di Paesi dove l’accesso al sistema sanitario, e quindi alle cure, nonostante sia garantito spesso nelle carte costituzionali, di fatto non avviene. Quindi sono territori in cui se un bambino si ammala e i genitori non hanno i soldi per pagare le cure, anche in ospedali pubblici, non possono curarsi. Territori in cui a volte non ci sono neanche strutture attrezzate per erogarle.
Qual è dunque la vostra missione?
Il progetto di Soleterre è un progetto di mondo e non solo un progetto di azione. Un progetto del fare ma anche del “come” fare. La nostra ambizione è prenderci cura degli altri in un mondo dove l’altro è stato completamente espulso, e dove è più facile farsi la guerra che dialogare. Prendersi cura, dal mio punto di vista, continua ad essere l’unico modo per curare. E per curare bisogna essere capaci di mettersi nei panni degli altri. Non esiste cura scientifica senza umanità. La tecnica da sola non fa niente. La tecnica, la ricerca scientifica, il miglioramento delle pratiche hanno senso solo se ancorate a una certa idea di uomo, a una certa idea di umanità, a una certa idea di cura.
Quale è stato uno dei primi vostri interventi?
La ristrutturazione di un dispensario medico in Marocco, nella regione del Beni Meskine, che è poi così tornato operativo come punto nascite. È un ricordo molto bello. Prima che intervenissimo, il centro era chiuso da tempo e senza personale, le donne si rifiutavano di andarci a partorire al grido di “Non siamo animali”. Da subito, abbiamo cercato non solo di attrarre fondi da parte di altri Stati ma anche di attivare le componenti locali per generare reddito. In questa direzione è andata, ad esempio, la creazione di una cooperativa in cui erano impiegate donne del luogo nella realizzazione di tappeti e coperte. I prodotti realizzati a mano li abbiamo poi venduti sia nel mercato equosolidale italiano ed europeo sia all’interno di boutique locali, e con il ricavato abbiamo finanziato i lavori di riqualificazione anche grazie a Fondazione Unidea di Unicredit (oggi, Unicredit Foundation). La più grande soddisfazione è che poi questa struttura è stata reinserita all’interno del distretto sanitario locale.
Quando è iniziato invece il vostro impegno nell’ambito dell’oncologia pediatrica?
In Ucraina, all’interno dell’Istituto del cancro di Kiev. Oramai più di dieci anni fa. Da quell’esperienza è nato il programma internazionale “Grande Contro il Cancro”, che ha l’ambizione di innalzare i tassi di sopravvivenza per i bambini che si ammalano di tumore in ogni angolo del mondo. Soleterre, nel frattempo, è diventata ONG, poi Fondazione e dunque un ente del terzo settore.
Lei ha fatto riferimento ai tassi di sopravvivenza. Ma di che cifre parliamo?
In Italia e nel mondo occidentale, facendo una media, viaggiano attorno all’80-90%. In altri Paesi le percentuali di sopravvivenza sono estremamente più basse. In Africa, ad esempio, non esiste nemmeno un registro del cancro, quindi non siamo in grado di stimarla. Per darvi altri dati: in Ucraina, prima della guerra siamo riusciti ad innalzare i tassi di sopravvivenza dal 50 al 64%, grazie al coinvolgimento del Ministero della Salute, diverse organizzazioni locali e moltissimi donatori italiani. Poi è arrivata la guerra, scoppiata oltre due anni fa, che ha riportato il valore a meno del 50%. Ci sono circa 2000 bambini malati di cancro che siamo riusciti a far uscire dal Paese per curarli, con quella che è senza dubbio la più grande evacuazione nella storia dell’oncologia pediatrica. Sono partiti da Kiev e hanno percorso 800 chilometri fra treno, pullman e a piedi prima di poter salire su un aereo per l’Italia.
Ci racconti di più.
Siamo stati l’organizzazione che ha effettuato il primo viaggio in aereo con bambini salvati dalle bombe, ospitati e ricoverati in Italia al San Matteo di Pavia, all’Istituto di Tumori di Milano e all’Ospedale di Varese. Ne stiamo poi curando altri 4500 nel Paese grazie a una significativa rete di donatori, che purtroppo non sempre è sufficiente per aiutare i piccoli pazienti in condizioni così disperate. Tante volte ci ritroviamo a fare appelli speciali alla solidarietà della comunità internazionale per poter ottenere risorse e farmaci personalizzati per l’oncologia pediatrica, che scarseggiano.
Quello della carenza di farmaci è un problema globale che si esaspera nelle zone di conflitto, rendendo più complicato garantire le cure di base.
Esatto. Vi racconto una nostra esperienza per comprendere meglio l’attualità di questa criticità. In tempo di guerra, abbiamo allestito un centro per interventi di trapianto di midollo per bambini malati di Leucemia, a Leopoli. Una tipologia di interventi che aumenta grandemente la possibilità di sopravvivenza per i giovani pazienti. Stiamo però avendo fatica a somministrare le cure post chirurgiche. Lo stesso sistema sanitario locale non riesce neanche a procurare i farmaci di base per la popolazione: l’ho visto con i miei occhi quando mi sono recato in una farmacia. Se non si trovano neppure i prodotti generici per alleviare il mal di testa o il mal di stomaco, come si possono rintracciare farmaci specifici per patologie come il cancro?
Altrimenti le cure continuano ad essere un privilegio di pochi e non un diritto per tutti.
Ancora oggi, mentre noi ci stiamo occupando di curare il cancro, in Africa i bambini muoiono di malaria o di dissenteria. E muoiono in gran numero. E anche se, osservando i dati internazionali, ci accorgiamo che fortunatamente le morti per i bambini di età inferiore ai cinque anni sono diminuite, allo stesso tempo aumentano le patologie croniche. E continuano a non esserci nella maggior parte del mondo degli ospedali che siano degni di questo nome. Per questo, è necessario l’impegno di enti come il nostro: non aspettiamo che qualcosa avvenga ma ci adoperiamo per cercare di fare in modo che ci sia in ogni parte del mondo il minor divario possibile tra il bisogno di salute e l’offerta di salute, allargando la rete di umanità e diffondendo la cultura del prendersi cura, senza nessuna distinzione qualsiasi sia la forma di vita che si vive, qualsiasi sia la geografia che si abita, perché tutti nasciamo uguali in dignità e diritti. Oggi il mondo sta andando in guerra. Non sta andando verso gli altri ma contro gli altri e quindi c’è ancora più bisogno di Soleterre.
Non solo salute ma anche giustizia sociale, dunque.
Per noi salute significa giustizia sociale.
In oltre 20 anni di attività abbiamo seguito con supporto psicologico, economico e lavoro 365.000 persone in condizioni di vulnerabilità, malattia, povertà e violenza, assistito 40.300 pazienti con cure oncologiche e sostenuto 22 Ospedali. Circa 50 beneficiari al giorno. Il che significa che ogni mezz’ora Soleterre sta aiutando un individuo che era solo e disperato e che sarebbe potuto morire. I diritti sono interdipendenti, come sappiamo. Quando ci si occupa di salute si interviene anche su altri ambiti, come il lavoro o la scuola. Non è retorica, perché quando si inizia a viaggiare in questi posti, ci si rende conto della realtà: ci sono persone che stanno male e che muoiono se non ricevono aiuto immediato. E hanno tutti un nome, un cognome, ricordi i loro occhi e gli odori di ogni incontro. Non si puoi rimanere inerti. Abbiamo investito più di 81 milioni grazie alle donazioni e all’impegno di donatori occasionali o regolari, con sms solidali, testimonial, media, aziende, fondazioni e anche qualche istituzione. Siamo riusciti a creare un movimento partecipato di individui che vogliono un mondo dove tutte e tutti abbiano accesso alla salute.
Abbiamo parlato di Africa, Ucraina, ma quali sono state le altre missioni a tutela della salute globale?
Da quando siamo nati abbiamo attraversato 24 Paesi del mondo. Immaginate la differenza che ci può essere fra Europa e America Latina ma anche tra Africa mediterranea e Africa subsahariana. Paesi tutti molto diversi, attraversati da guerre, carestie e da grande difficoltà, ma sempre uniti nell’umanità, uguali nel dolore. Il dolore di un genitore che non può garantire per il figlio le cure è identico in qualsiasi parte del Globo. Non c’è differenza. Gli esseri umani sono uguali nella sofferenza. Quando soffrono, soffrono allo stesso modo. E proprio per dare ascolto a questo dolore, cercando di dare una risposta, ci siamo mossi.
Le guerre appunto sono un incredibile acceleratore di dolore e disuguaglianze. Sotto attacco finiscono anche i presidi sanitari.
In Ucraina, ad esempio, tra febbraio 2022 e settembre 2023, la guerra ha colpito per il 95% bersagli civili (ospedali, case, scuole, università, supermercati). Ci sono stati 1147 attacchi alla sanità, pari a quasi il 70% degli attacchi in altri 18 Paesi monitorati dall’OMS. La situazione al momento è anche peggiorata a livello globale con l‘attacco a Gaza. Bambini, donne e uomini che ci rimettono incolpevolmente la vita. Gli ospedali sono diventati i luoghi dove si consuma l’ultima idea di umanità. Fa male pensare a chi sta in un ospedale tutti i giorni, ed è costretto a operare in condizioni disastrose e pericolose. Fa male pensare che i pazienti divengano scudi umani, merce per il potere.
Sono immagini di una potenza incredibile.
Purtroppo è la cruda realtà. Quando sono stato al fronte nel Donbass nel 2014 ho vissuto il bombardamento dell’ospedale locale da parte degli stessi ucraini, perché all’interno vi era una base dei separatisti, con i pazienti psichiatrici chiusi negli scantinati.
E’ difficile pensare che l’uomo in quanto tale possa arrivare a commettere le peggiori atrocità nei confronti di altri esseri umani, soprattutto per chi, come noi operatori sanitari, è mosso dalla spinta e dallo slancio umano di prendersi cura degli altri.
Con un forte impatto sui sistemi sanitari.
Una volta che sono attaccati dalle bombe, questi vanno al collasso perché ad essere colpiti sono edifici, centrali elettriche e termiche. Vi è riduzione del personale, burnout, alcuni colleghi perdono la vita. Mancano i farmaci, i macchinari vengono distrutti o si rompono, creando un danno a chi soffre di malattie croniche e non può interrompere le cure. In questi casi, per esempio, in Ucraina curiamo con i generatori elettrici. Quando questi saltano o quando salta la luce siamo costretti a portare i bambini, per proteggerli, negli scantinati che sono però dei luoghi umidi e polverosi. Dove non dovrebbe assolutamente restare un bambino, soprattutto se malato di tumore.
Situazioni estreme che con il passare del tempo diventano la nuova normalità.
La guerra diventa il nuovo modo di vivere. Dall’esterno ti rendi conto che c’è qualcosa che non va ma, se lo vivi quotidianamente ci fai l’abitudine. A Sarajevo, durante le guerre dei Balcani, dopo quattro anni di assedio, i ragazzi facevano aperitivo nella via dei cecchini: preferivano morire colpiti da un proiettile che come topi chiusi in cantina.
Purtroppo anche il vostro lavoro sul campo in condizioni sempre più complesse e proibitive diventa la normalità.
Un’assurda normalità. La priorità è non interrompere le cure in qualsiasi condizione. E lavoriamo nel silenzio perché spesso l’opinione pubblica si disinteressa. È difficile accettare questa idea che le persone non riescano, neanche quando non sono direttamente coinvolte, a non fare la guerra. La guerra è talmente ottusa. Così come è ottuso non capire che le bombe poi non guardano più in faccia a nessuno, neppure ai bambini.
A proposito, Soleterre si occupa anche della riabilitazione dei pazienti pediatrici feriti dalle bombe e ustionati dal fuoco.
Sì. A Leopoli, in Ucraina, abbiamo aperto un centro dedicato che ha in cura 700 bambini. E vi assicuro che è ancora più difficile prendersi cura di questi piccoli pazienti, sani fino a poco prima di ricevere una bomba in casa e che arrivano in ospedale con la propria famiglia gravemente menomati, con schegge di bomba nella spina dorsale, con pezzi di ferro nel cranio, amputati. Da subito abbiamo inviato un chirurgo che si occupa di medicina rigenerativa che ha fatto miracoli, evitando amputazioni, innestando pelle artificiale e, soprattutto, formando in loco un centinaio di chirurghi sia pediatrici che dell’adulto.
Ha in mente un episodio particolare che può raccontarci?
Vorrei condividere con voi la storia di Lisa, tre anni. Una bomba ha colpito la sua casa e tutta la sua famiglia. Lei viene portata a Leopoli, nell’ospedale pediatrico, mentre i genitori, anche loro feriti, all’ospedale per adulti. La bambina, appena arrivata, si è finta morta: aveva perso tutto, era traumatizzata dall’attacco e non aveva la mamma né il papà vicino. Questo episodio mi ha fatto molto riflettere perché una creatura di tre anni non sa cos’è la guerra, non sa cos’è una bomba. È fragile, non può e non dovrebbe essere minimamente accostato ad un ordigno. Piano piano, fortunatamente abbiamo fatto sì che lei potesse ancora fidarsi delle persone che le stavano attorno e che cercavano di curarla. Ha potuto incontrare nuovamente i genitori, anche loro guariti. Abbiamo trovato loro una casa, perché non avevano più niente. E la stessa operazione l’abbiamo fatta per tante altre persone che sono arrivate in ospedale. Per noi questo è prendersi cura: superare i limiti della realtà.
La storia che ci ha appena raccontato è un esempio di ciò che fate quotidianamente. Siete tra le principali realtà italiane e internazionali che curano il trauma causato dalla guerra.
Per la cura del Post Traumatic Stress Disorder è fondamentale disporre di modelli di intervento che prevedano le azioni da compiere soprattutto in caso di emergenza. Noi siamo partiti dall’esperienza sviluppata nei nostri ospedali. Al San Matteo di Pavia, per esempio, abbiamo elaborato diversi clinical trial proprio per studiare l’effetto del supporto psicologico per gli operatori sanitari, medici, infermieri e i pazienti di tutte le età. Ciò che oggi possiamo portare nei diversi contesti di emergenza è la capacità di curare i traumi psichici, sempre più dolorosi dei traumi fisici. Se infatti la dimensione fisica a volte si riesce a recuperare, quella psicologica è invece spesso compromessa. La perdita di affetti, di una certa sicurezza nel mondo (casa, amici, contesto in cui si vive, lavoro, ecc.) rischia di renderci soggetti incapaci di rispondere alle domande “Vivo, ma per cosa? Per quali obiettivi?”. In questo periodo di conflitto russo-ucraino c’è poi una cosa che mi ha causato più di tutte una grande sofferenza.
Quale?
Un bambino malato di tumore mi ha detto “Che senso ha curarsi quando con questa guerra non c’è più futuro?”. Ecco, questi sono degli attacchi al pensiero molto forti. Curare i traumi significa continuare a essere capaci di produrre pensiero positivo, creare speranze e prospettive, continuare a sognare, nonostante i morti. Favorire insomma una dimensione di possibilità, di speranza, di diritto.
Ritorna prepotentemente il discorso dei diritti.
Bisogna impegnarsi per fare in modo che i diritti fondamentali esistano e siano esigibili. È questo il segreto per continuare a creare speranza anche in contesti dove la realtà è talmente dura e dove il nostro lavoro rende abitabili posti che sono diventati deserti.
Quali gli altri vostri interventi in emergenza, nello specifico nei territori del conflitto russo-ucraino?
Un pilastro importante è la formazione del personale sanitario. In questa direzione un ruolo importante lo ha avuto Assolombarda, che ci ha permesso di lavorare con l’IRCCS Maugeri e con il San Matteo di Pavia per la formazione di medici riabilitatori. Così come ringraziamo il Ministero degli Esteri italiano insieme all’AICS – Agenzia italiana per la Cooperazione allo Sviluppo che ci ha finanziato due progetti in aiuto proprio ai disagi fisici e psichici dei bambini oncologici e feriti dalla guerra. E ancora il servizio di supporto psicologico in emergenza anche al fronte nelle unità speciali che recuperano i civili dispersi, per far vincere la vita anche dove regna la morte, e infine la distribuzione di kit alimentari igienici contro il freddo durante l’inverno.
E per l’ordinarietà?
Abbiamo aperto una grande casa di accoglienza nel Sluckij, vicino a Leopoli, che ospita 100 persone, 30 famiglie, curate o ancora in cura. Abbiamo poi creato anche una casa di accoglienza per bambini malati di cancro a Kiev, la cui apertura ha subìto numerosi ritardi a causa della guerra e della minaccia delle bombe.
Bombe contro i bambini malati di cancro? Un atto disumano.
Lo è. Lanciare le bombe in testa ai bambini malati di cancro è la fine dell’umanità. Non credo che esista qualcosa di peggio. Ed è per questo motivo che abbiamo dovuto prevedere nella struttura un bunker dove far rifugiare i giovani pazienti in caso di bombardamento. Finalmente la casa è abitata, anche grazie a Fondazione Zaporuka e Fondazione Rosa Pristina.
Ci aiuti a conoscere i numeri e le conseguenze sanitarie della guerra e gli effetti sulla popolazione, soprattutto sui bambini.
I bambini ufficialmente feriti dalla guerra sono circa un migliaio. Però i numeri bisogna saperli maneggiare con attenzione: mille, infatti, sono i bambini feriti direttamente. Dal computo però sono preoccupantemente esclusi quelli che sono stati colpiti dalla guerra in modo indiretto. Penso agli ustionati che si sono bruciati con gli incendi causati dalle candele nei bunker oppure a quella famiglia che, scappando dalle bombe, sulla strada dissestata trasportava del latte in siero in un bidone compresso che è esploso ustionando completamente un bambino. Anche se non si tratta di ordigni l’effetto è lo stesso. Il numero, insomma, è almeno il triplo. Basti ricordare che i bambini che ogni anno si ammalano di tumore in Ucraina sono 1.500. E noi, come detto, stiamo curando più o meno altri 4.500 piccoli pazienti.
Secondo il rapporto Headway “A new roadmap in Mental Health”, presentato nel 2022 da The European House – Ambrosetti e Angelini Pharma, si stima che il 22% della popolazione abbia un disturbo mentale in contesti di conflitto – 1/3 dei rifugiati ucraini potrebbe sviluppare depressione, disturbi d’ansia o disturbo post traumatico da stress come conseguenza della fuga dalla guerra o dello sfollamento interno.
I bambini non vanno a scuola, perdono la casa, il posto sicuro. E per loro la sicurezza è tutto. Spesso è rappresentata dalla cameretta con i propri giochi, il papà e la mamma. Perdendo questo, perdono per sempre quella dimensione di base che rende le persone un po’ più sicure di appartenere a un mondo che li protegge. E quando vieni privato di tutti i tuoi punti di riferimento in poche ore senza neanche averne consapevolezza, ti senti perso. Il nostro compito è quello di ricostruire con la cura e l’assistenza la fiducia negli esseri umani, nel mondo. A causa dei conflitti ci troviamo a curare ansia, disturbi post-traumatici, problemi nello sviluppo psicosociale, nelle relazioni, ritardi mentali nell’infanzia e disabilità fisiche dovute da ustioni e amputazioni. Siamo di fronte dunque ad un peggioramento sostanziale delle condizioni di vita. E per chi è ammalato in questi contesti significa un notevole rischio di morire a causa della carenza di ospedali, caregiver, medicine.
Soleterre dunque incarna l’approccio One Health secondo una visione di salute oltre i confini..
Io credo che i confini, le barriere, i muri non abbiano mai aiutato l’umanità. Tracciare una linea di separazione è disumano. L’umanità è, invece, sempre stata capace di progredire. Si lancia una fune e si creano dei ponti, si cerca di trovare delle modalità di unione tra le persone. E quindi salute oltre i confini, non solo geografici. La cura è proprio per sua natura l’andare verso l’altro, il prendersi cura prima ancora di avere le capacità e le competenze. Si cura anche con la solidarietà. Questo concetto lo si capisce perfettamente quando in ospedale non ci sono più le terapie per i bambini malati di tumore. E’ in queste situazioni che vedi la differenza tra chi pensa di avere finito il proprio compito e chi invece crede che inizi in quel momento.
Accompagnare quindi le persone verso la morte anche se la medicina non può più.
La morte, l’ignoto, fanno parte della vita. Fa un buon lavoro il medico, l’infermiere o l’operatore che si preoccupa del paziente anche quando sono finite le cure, suggerendo l’idea che la vita sia degna di essere vissuta fino all’ultimo minuto, all’ultimo respiro. E’ quello il momento in cui il paziente ha più bisogno di aiuto. E questo dà conforto anche a chi si prende cura di loro.
Anche parte del mondo salute italiano ha deciso di sostenervi, rispondendo al vostro appello di aiuto: lo scorso anno, infatti, è partito il programma di formazione del personale medico ucraino in Italia promosso dalla Fondazione con il sostegno di Regione Lombardia e Assolombarda. In cosa consiste? Un modello da replicare?
La Regione Lombardia ci ha aiutato in diversi progetti. Insieme abbiamo realizzato il programma di accoglienza per i bambini ucraini malati di cancro. C’è un ottimo rapporto di collaborazione con l’assessore Bertolaso ma anche con il presidente Fontana, senza dimenticare il sostegno del Ministero della Salute, del Ministero degli affari esteri, di tutto l’attuale Governo e anche delle organizzazioni come Assolombarda e Federfarma.
A tal proposito, cosa ne pensa della deroga temporanea ai titoli di studio per i professionisti sanitari Ucraini, confermata nel Milleproroghe, utile a far entrare nel Paese i sanitari per farli lavorare con il duplice obiettivo di mantenere la professionalità e sopperire alla carenze nostrane di personale? Un’opportunità per i medici e fisioterapisti di Soleterre di fare “training on the job” lavorando sui pazienti del nostro Paese.
Mi sembra un provvedimento molto importante che interessa la formazione medica. E’ un win-win. Si innesta infatti un tema di utilità per il nostro sistema sanitario ma anche un’opportunità di attenzione e cura per i 200 pazienti oncologici ucraini curati in Italia. Diverso è invece il tema della carenza dei nostri camici bianchi. Io personalmente sono favorevole ad accogliere medici provenienti da altri Paesi, soprattutto se formati secondo standard assimilabili ai nostri. Può essere molto utile per i colleghi stranieri formarsi da noi, così come per i nostri formarsi in altri territori. Vi faccio un esempio.
Prego.
Fino a poco tempo fa, esisteva una sorta di capacità trasversale per cui il chirurgo era capace di svolgere diversi compiti e sapersi orientare in situazioni diverse. Spesso, parlando con i direttori delle scuole di specialità emerge la necessità di mettere alla prova gli specializzandi con altre realtà. Il chirurgo che opera con strumenti limitati e in condizioni complesse deve avere una capacità di azione e intervento su tanti diversi aspetti contemporaneamente. Sviluppa cioè una visione di insieme non limitata solo al proprio ambito di specializzazione. Una modalità di formazione che in Italia sembra mancare. Credo dunque che sia molto utile prevedere delle possibilità di scambio tra professionisti come arricchimento per la scienza e la capacità medica, ma anche dal punto di vista umano.
Sui bambini ucraini, come abbiamo più volte sottolineato nel corso di questa intervista, oltre alle bombe si è abbattuto anche il cancro. La sua fondazione, nei due anni di guerra, ha aiutato oltre 1.300 bambini malati di tumore. Da psico-oncologo, come vede la crescita esponenziale di questa piaga sociale?
Il tumore non guarda in faccia alla guerra. I dati a nostra disposizione sono drammatici: entro il 2030, nel mondo, un uomo su due e una donna su tre avranno a che vedere con una qualche forma assimilabile al tumore. Ogni euro sottratto alla ricerca e alle cure per qualsiasi forma di patologia dovrebbe essere moralmente ed eticamente giustificato dai decisori pubblici, soprattutto se questo euro viene sottratto per causare morte, comprando armi o entrando in guerra. Significa, cioè, continuare a fare vincere un’idea di morte e non di vita. Prendersi cura non è soltanto una specificità degli operatori sanitari. Il prendersi cura dovrebbe essere una caratteristica umana. E a me oggi sembra che neanche ci si ponga il problema. Così come si sottovaluta ancora il ruolo del supporto psicologico.
Perché, secondo lei, curare i disturbi psichici così come prevenirli è un concetto che sconta ancora lo stigma sociale?
Quando si parla di supporto psicologico, le persone fanno fatica a capire a cosa serva. Forse iniziano a comprenderlo quando si parla di suicidi. In Italia, negli ospedali ci sono 2,8 psicologi ogni 100.000 abitanti ma ne servirebbe uno ogni 1.500. Molte delle nostre iniziative sono orientate a sconfiggere questi pregiudizi: siamo a favore dello psicologo di base e siamo ottimisti che l’approvazione del testo per lo psicologo delle cure primarie possa diventare operativa nei prossimi sei mesi. Questa figura potrebbe evitare tante conseguenze negative dovute al mancato supporto psicologico, che vanno dal femminicidio ai problemi di sviluppo e cognitivi. Se tra le visite per i neonati, ad esempio, fosse prevista anche la possibilità di un contatto con lo psicologo, diventerebbe naturale per le famiglie avere una relazione con un professionista della salute mentale. Tutto questo interessa in maniera significativa anche la lotta al cancro infantile: il supporto psicologico è metà della cura. Oltre alla chemioterapia, infatti, serve avere un motivo per continuare a vivere.
Se dovessi chiederle di fare un appello al dono, che messaggio lancerebbe?
Donare significa non solo permettere l’accadere delle cose, ma significa scegliere di fare parte di qualcosa di più grande. Fare parte di un’umanità che non vuole la guerra, che non vuole la distruzione dell’altro ma vuole costantemente aprire delle possibilità, dei punti di contatto, dei ponti verso l’altro. E poco a poco, fare parte di questa comunità è l’unico modo per fermare le guerre, per fermare l’odio, per fermare la violenza. Io non ne conosco un altro.