Nel decorso e nella gestione delle malattie reumatologiche concorrono in maniera importante e diretta non solo il quadro clinico del paziente, in senso stretto, ma anche il contesto socioeconomico e ambientale, come evidenziano diverse ricerche svolte negli ultimi anni in Italia e a livello internazionale.
Da un lato, i risultati ottenuti nella cura dell’artrite reumatoide negli ultimi due decenni sono stati a dir poco sensazionali. Attraverso una diagnosi precoce e un trattamento volto al rapido e completo controllo della malattia, è oggi possibile ridurre al minimo l’invalidità, un tempo inevitabile, e azzerare l’eccesso di mortalità che storicamente accompagnava questi pazienti.
D’altro canto, però, una quota non trascurabile di pazienti, calcolabile intorno al 15%, si dimostra ancora refrattaria ai trattamenti e pone problemi rilevanti nella gestione della malattia. L’attenzione della ricerca si sta quindi incentrando su questa popolazione, cercando di chiarire i motivi di queste difficoltà.
La capacità di gestire la malattia dipende dal livello socioeconomico: lo studio inglese
Tra i fattori più importanti nell’identificazione della popolazione “difficile da trattare” vi sono l’obesità e il fumo, fattori di rischio per lo sviluppo dell’artrite, ma anche il basso livello socioeconomico.
Secondo le ultime ricerche, infatti, quest’ultimo fattore impatta significativamente sulla risposta al trattamento con farmaci biologici (di ultima generazione, quindi) anche in nazioni, come il Regno Unito, che hanno un sistema sanitario universalistico che consente a tutti il medesimo accesso alle cure. Un recente studio inglese svolto su un esteso campione di popolazione (oltre 16.000 pazienti affetti da artrite reumatoide) ha evidenziato come la capacità di gestire la malattia è proporzionale al reddito: cala a mano a mano che questo diminuisce, con una ridotta risposta e una minore persistenza del trattamento.
Risulta pertanto chiaro che, oltre alla ricerca di nuovi farmaci volti al controllo dell’infiammazione articolare e delle alterazioni immunologiche proprie della malattia, la nostra attenzione vada diretta allo stile di vita e ad aspetti socioculturali. Un fattore decisivo per la buona risposta terapeutica, per esempio, è l’aderenza alla terapia che, sappiamo, è certamente inferiore nelle classi sociali e culturali meno privilegiate.
L’inquinamento atmosferico come fattore di rischio per le malattie reumatologiche: lo studio italiano
Questo nuovo approccio deve tenere in considerazione anche l’ambiente in cui le persone vivono. È noto da tempo che l’inquinamento, in particolare quello atmosferico, è associato a un maggior rischio di patologie cardiovascolari e polmonari. Alcuni studi hanno suggerito che l’inquinamento atmosferico possa aumentare anche il rischio di ammalarsi di artrite reumatoide, innescando la risposta infiammatoria a danno, anche, delle articolazioni.
Un recente studio, coordinato dal prof. Maurizio Rossini della UOC di Reumatologia dell’Azienda Ospedaliera Universitaria di Verona, è stato dedicato a indagare la possibile relazione tra l’incidenza e la severità di diverse malattie reumatologiche con l’esposizione all’inquinamento atmosferico.
L’indagine ha riscontrato un rischio maggiore di severità di malattia e di riattivazioni di artrite reumatoide durante i periodi più inquinati da ossidi di carbonio o d’azoto o da ozono o da polveri sottili. Inoltre, è stato dimostrato che l’esposizione acuta ad elevati livelli di inquinamento atmosferico è una potenziale causa di inefficacia o perdita di efficacia delle terapie, determinando quindi la necessità di cambi di terapia e un aumento dei costi per il Servizio Sanitario Nazionale.
Non solo artrite: i danni da esposizione cronica alle polveri sottili
Nell’ambito dello stesso progetto sono stati condotti grandi studi di popolazione che hanno messo in luce l’effetto deleterio dell’esposizione cronica all’inquinamento, specie da particolato. L’esposizione a polveri sottili (PM10 o PM2,5) sembrerebbe avere un effetto negativo anche sul metabolismo scheletrico in quanto sembra in grado di favorire il rilascio di citochine infiammatorie, cui consegue l’attivazione degli osteoclasti, le cellule che demoliscono l’osso rendendolo più fragile.
Inoltre, un’elevata concentrazione di particolato nell’atmosfera potrebbe ridurre l’esposizione ai raggi solari UVB, con conseguente diminuzione della capacità dell’organismo di produzione di vitamina D e quindi deficit di mineralizzazione dell’osso.
Uno studio, condotto su oltre 59.000 donne distribuite sul territorio italiano, ha documentato che l’esposizione a concentrazioni elevate di polveri sottili di dimensione inferiore ai 10 millesimi di millimetro (PM 10) o ai 2,5 µm (PM 2.5) porta ad un aumentato rischio di osteoporosi di circa il 15%.
Se da un lato i farmaci di nuova generazione hanno raggiunto un buon livello di efficacia, le ricerche ci stanno dimostrando che ci sono una pluralità di fattori da considerare e di meccanismi correlati da indagare per garantire un migliore stato di salute e benessere dei pazienti. Si tratta di importanti sfide per la ricerca scientifica che ci pongono obiettivi sempre più alti e che occorre continuare a supportare.