In questo periodo si sollevano da ogni parte appelli per riformare il SSN e per garantirne la sostenibilità. Noto però alcune posizioni ideologiche che, a mio modo di vedere, sono poco funzionali ad un approccio costruttivo ancorché critico e che va assolutamente arricchito con considerazioni maggiormente tecniche. Il dibattito ferve con diversi colleghi con i quali ci scambiamo opinioni sul tema della sostenibilità e notiamo spesso posizioni, anche da parte di alcuni addetti ai lavori, che, brandendo il vessillo della sopravvivenza del Sistema Pubblico, alternativamente si scagliano contro il privato, altri invece invocano maggiori risorse economiche. C’è chi denuncia il fallimento della cosiddetta aziendalizzazione della sanità, c’è chi ritiene che l’autonomia differenziata porti ad accentuare le attuali situazioni di offerta disomogena e carente tra le regioni ed in particolare tra quelle del nord e quelle del sud, ma pochi invece sono disposti a spostare il ragionamento su temi di corretto ed efficiente utilizzo delle risorse. Percorso più faticoso ma necessario. Come capita spesso quando un tema diventa “virale” emergono posizioni radicalizzate che rischiano peraltro di defocalizzare i ragionamenti ed anche gli sforzi dalle direttrici utili. E’ sicuro infatti che se esistessero maggiori risorse (il condizionale è d’obbligo), verrebbero sicuramente impiegate nel sistema sanitario anche solo per un mero ragionamento di tornaconto politico di ricerca del consenso. Il problema è però che qualsiasi sia il livello assoluto delle risorse economiche, vanno ormai cambiate radicalmente le logiche di distribuzione delle stesse a livello nazionale nei confronti delle regioni ed anche all’interno delle regioni tra i vari erogatori. Su questo fronte gli spazi di ragionamento sono ampi e la discussione pratica non decolla.
Pubblico, privato accreditato, privato puro: no alla demonizzazione e allo scontro ideologico
L’idea poi che il privato vada cancellato dal modello di erogazione sanitaria è sbagliato ed ideologico per due motivi a mio parere. Innanzitutto esiste un privato accreditato che quando eroga prestazioni per il SSN è assolutamente percepito ed assimilabile al sistema pubblico dai pazienti, ai quali nulla interessa se sia privato o pubblico, interessa invece il livello di servizio che ricevono. Quando invece opera come privato puro, interviene con una dimensione che non supera il 25% della spesa sanitaria ed una caratterizzazione che non si sovrappone al pubblico, in quanto la maggior parte di questa spesa non riguarda prestazioni di ricovero ma spesa per prestazioni in RSA, odontoiatria, farmaceutica. Il tema pertanto in questo caso risiede nell’utilizzo corretto di questa importante forma di risorsa aggiuntiva per il sistema che deve essere complementare e non sovrapposto a quello pubblico in una ricerca di garanzia di copertura complessiva da parte di tutti gli operatori della rete. Altresì è erronea la posizione contraria all’erogazione intramoenia dei medici come forma che sottrae risorse professionali e contribuisce all’allungamento delle liste di attesa. Anche in questo caso va esercitata una forma di governance attenta nell’erogazione che non preveda solo che vi sia, come fatto ora, un controllo limitato ai volumi della libera professione rispetto a quelli erogati in istituzionale ma che verifichi che i tempi di attesa in libera professione non possano essere sostanzialmente differenti da quelli in SSN. L’idea della libera professione non nasceva dalla necessità di trovare una alternativa a pagamento per i cittadini ma da quella di garantire al cittadino la possibilità di scegliere il professionista da cui farsi curare in virtù di un rapporto fiduciario.
Le sfide e i temi al centro del dibattito in sanità
Proviamo quindi a spostare il ragionamento su temi più complessi magari dal punto di vista dell’individuazione delle soluzioni e, mi si lasci dire, meno ideologici e più tecnici.
Ricordiamo brevemente alcuni dei grandi temi oggi oggetto di dibattito in sanità:
– la necessità di sviluppare una medicina territoriale che sia da supporto alla gestione dei pazienti cronici e fragili per ridurre il rischio dello sviluppo dei fenomeni acuti e per prevenire l’ospedalizzazione;
– la presenza di Ospedali per acuti che riescano a garantire sia l’alta complessità ma anche la media complessità in maniera omogenea sul territorio nazionale;
– la situazione di sovraffollamento dei Pronto Soccorso a cui il cittadino si rivolge in assenza di risposte su temi che non comportano l’ospedalizzazione;
– il famigerato tema delle liste di attesa;
– la difficoltà di reclutamento di alcune categorie di specialità di medici e sicuramente il deficit del supporto assistenziale infermieristico;
– i livelli di remunerazione dei professionisti della sanità.
Verso un cambio di paradigma
Per governare una situazione così’ complessa non si può più ragionare con lo stesso modello operativo con il quale si è ragionato fino ad ora. Semplicemente non è più possibile. Tutti questi temi, sono collegati in un modo o nell’altro ad una comune direttrice, ad un fil-rouge: l’esigenza improrogabile di passare da logiche di pura e semplice gestione dell’offerta di prestazioni, disancorate dagli effetti che producono, ad una di risultato di salute (i cosiddetti Otucome). Questo cambio di paradigma, già maturo dal punto di vista dei meccanismi di valutazione pelle perforrmances sanitarie, basti pensare alle innumerevoli classifiche dei migliori ospedali basate sui parametri di risultato di salute (derivanti anche dalle misurazioni del Piano Nazionale Esiti), si deve collegare anche ad un meccanismo di distribuzione delle risorse economiche e di rendicontazione delle stesse. La logica del tutti fanno tutto va superata a favore di una logica che, partendo da una seria analisi della domanda appropriata di salute e non gonfiata, definisca i vari set assistenziali necessari e distribuisca in maniera ponderata le risorse. Questo approccio va utilizzato sia a livello Ospedaliero sia a livello territoriale ed infine anche nella complessa questione delle liste di attesa.
Outcome, KPI, DRG
A livello Ospedaliero è infatti sotto gli occhi di tutti che non è più sostenibile avere reparti ospedalieri che non rispettano determinati indicatori di salute per i pazienti e prevedere che l’azione sanitaria sia indifferenziata e, spesso, sovrapposta. Si propone per questo di definire una serie di KPI fondamentali nei due ambiti clinico/medico e chirurgico e prevedere, in sostituzione all’erogazione sanitaria in termini di DRG (Diagnosis related groups) clinici e chirurgici, l’individuazione e la definizione di un costo standard, una sorta di costo industriale, da associare al raggiungimento di questi risultati di salute in termini di costi del personale, costi di dispositivi medici e costi di dotazione tecnologiche necessarie per l’erogazione. I LEP in questo senso sono una straordinaria opportunità che va colta per cambiare l’approccio. Va pertanto sostituita l’attuale impostazione di remunerazione a prestazione, caratterizzata da silos separati tra i budget di ricavi e quelli dei costi, con una impostazione per esito clinico che combina risultati e risorse necessarie. L’osservazione dei risultati di questo approccio consentirà di ripartire il budget tra le strutture che offrono maggiore qualità. Prevedere delle targhette che distinguono strutture ospedaliere a livello di Dea di primo o secondo livello, o prevedere la distinzione tra strutture ospedaliere e territoriali senza una logica di misurazione e remunerazione della qualità offerta ai pazienti risulta una mera operazione teorica e poco significativa. La risultante del processo di misurazione deve poi favorire percorsi di razionalizzazione e l’aggregazione multidisciplinare tra strutture ospedaliere nell’ottica del raggiungimento dell’esito del paziente.
Come garantire un’efficace ed efficiente medicina territoriale
Per quanto riguarda invece l’applicazione territoriale si propone di valorizzare le esperienze già percorse nella prima e nella seconda riforma del sistema sanitario lombardo, quando sono stati investiti molti sforzi nella definizione dei cosiddetti PAI (Piani assistenza individuale), in ottica di applicazione del nuovo modello dettato dal DM 77. Per abbandonare la sterile polemica sulle case della salute che rappresentano solo operazioni immobiliari o al meglio di restyling di strutture esistenti, vanno valorizzati e misurati i processi interni multidisciplinari che si sviluppano all’interno delle strutture territoriali fra operatori della salute e sociosanitari. Ad oggi i percorsi organizzati di presa in carico delle cronicità non sono stati sfruttati adeguatamente. L’ingaggio con i medici di medicina generale (MMG) deve essere rivisto per una aderenza ai percorsi che passi da una dimensione sperimentale a una dimensione industriale e massiva. Come noto, per gestire in maniera efficace le patologie croniche vanno definiti i percorsi di presa in carico in maniera da prevedere l’interazione con gli infermieri di famiglia e di comunità e con gli assistenti sociali. Inoltre di tutte le patologie croniche oltre il 70% della numerosità per soggetto e per spesa è concentrata all’interno di 5-6 patologie croniche maggiormente ricorrenti. Quindi si tratta di pochi PDTA (Percorsi diagnostici terapeutici assistenziali) che vanno riverificati in queste direzioni: vanno valutate le interazioni tra professionisti nelle varie fasi della malattia, il chi fa cosa quando; vanno definite le prestazioni ripetitive da effettuare durante la diagnosi ed il follow up; va definito il piano terapeutico farmacologico senza bisogno di ripetere le ricette; vanno prenotate le prestazioni di visita e prestazioni ambulatoriali senza bisogno del passaggio ai CUP da parte delle COT (centrali operative territoriali). Necessario poi andare a misurare quale sia il ritorno in termini di riduzione dei fenomeni di accesso inappropriato nei Pronto soccorso e di riduzione dei fenomeni di riacutizzazione delle patologie croniche (Outcome). Questi approcci di presa in carico sulle patologie croniche poi vanno applicati per remunerare i MMG in ottica diversa da quella capitaria. La remunerazione dei MMG può infatti in parte essere agganciata agli esiti di salute sui percorsi di presa in carico dei pazienti cronici. Anche in tal senso esistono modelli e sperimentazioni già applicati. Si tratta di applicarli. È infatti dimostrabile che l’aderenza ai PDTA crea per il sistema nel complesso una minore spesa complessiva che in parte può essere restituita ai MMG che la applicano nei propri pazienti con un doppio vantaggio, per il paziente e per il sistema.
Ridurre le liste d’attesa: come?
Infine relativamente al tema della riduzione delle liste di attesa la soluzione non può essere ricercata unicamente nella realizzazione del CUP unico o nella eliminazione delle doppie prenotazioni, ma deve invece affrontare con coraggio e metodo di lavoro il tema della appropriatezza prescrittiva. Cosa che non ho notato nei recenti DL e DDL recentemente emessi dal Ministero della Salute. I tentativi di riduzione delle liste di attesa effettuati solo con un aumento dell’offerta, peraltro finanziata con ore aggiuntive incentivate che vanno ad agire sugli stessi professionisti che sono già impegnati oltre gli orari ordinari da diversi anni, risulta una strategia criticabile perché inefficace e perché genera ulteriore domanda inappropriata. Circa il 70% delle prestazioni ambulatoriali erogate dalle strutture sanitarie sono di classe P (programmabile a 120 giorni). Lì si annida una grande fetta della mancata appropriatezza che riguarda valori che ben superano quelli che oggi anche il ministero della Salute ammette e denuncia. In questo ambito bisogna agire valutare l’appropriatezza delle prestazioni non urgenti ovvero quelle di classe D (a 30 e 60 giorni seconda che siano visite o prestazioni diagnostiche) e di classe P. Trasformare quelle di classe P da Programmabili a Presa in carico. Vanno disincentivate le prescrizioni di prestazioni non assistite da PAI che derivano da precisi PDTA prescritti nei percorsi delle case della comunità. Tale ri-orientamento di risorse ridurrebbe drasticamente l’inappropriatezza e libererebbe risorse umane e tecnologiche per le prestazioni veramente necessarie. Le P diverse da quelle non previste da piani di presa in carico e che derivano unicamente da accertamenti di prime visite per diagnosi di malattie presunte e da verificare, devono essere verificate da una interazione tra MMG e specialista ospedaliero. Con questa proposta si stima una riallocazione di risorse utili pari ad almeno il 30% delle risorse ambulatoriali.
Qualità e organizzazione: ecco i parametri per una premiale assegnazione delle risorse economiche
Le soluzioni vanno pertanto ricercate e trovate nella qualità e nell’organizzazione e l’insieme di queste iniziative deve quindi favorire una logica attiva nell’assegnazione delle risorse economiche strumentali da parte delle regioni che sia orientata al raggiungimento di definiti esiti di salute. Chi non è in grado di sostenere queste logiche deve essere oggetto di specifici piani di valutazione e riorganizzazione. Le stesse logiche dovranno poi essere applicate nelle assegnazioni di riparto tra Stato e Regioni al fine di superare le logiche di gestione della spesa oggi basate su silos non comunicanti. Solo l’orientamento deciso verso i risultati di salute può portare alla sostenibilità del sistema.