A inizio settembre le autorità sanitarie del Missouri, negli Stati Uniti, hanno annunciato un caso di influenza aviaria nell’uomo. Un paziente, con patologie pregresse, è stato ricoverato con alcuni sintomi ed è poi guarito e stato dimesso.
Il fatto che non abbia avuto contatti con animali ha ulteriormente concentrato l’attenzione sulla diffusione del virus e in particolare sull’ipotesi di trasmissione da uomo a uomo. Un quadro che abbiamo ricostruito con Calogero Terregino, dell’Istituto Zooprofilattico Sperimentale delle Venezie, che fa parte della Rete degli Istituti Zooprofilattici Italiani, e Direttore del Laboratorio di referenza europeo per l’influenza aviaria.
Cosa sta accadendo negli Stati Uniti? Qual è la situazione attuale?
Negli Stati Uniti esiste un contesto ormai consolidato da diversi mesi che vede la circolazione del virus dell’aviaria nell’avifauna e nel pollame. Più di recente c’è stato un evento di spillover unico causato da virus circolanti negli uccelli selvatici ad un allevamento di bovini da latte e successivamente la trasmissione fra diversi allevamenti, legata perlopiù alla contaminazione delle attrezzature per la mungitura che ha determinato oltre 250 casi, in quattordici stati nel giro di brevissimo tempo.
Una diffusione dovuta anche al continuo spostamento degli animali da uno stato all’altro che non ha consentito di eradicare prontamente il fenomeno e che ha portato ad alcuni casi di infezione nell’uomo.
Attualmente i casi documentati sono quattro per ciò che riguarda il passaggio dai bovini all’uomo e 9 quelli dal pollame all’uomo, per fortuna si è trattato di casi non gravi che hanno accusato forme di congiuntivite o sintomi lievi.
Poi, nelle scorse settimane, c’è stato questo caso del Missouri che, secondo quanto si apprende, non sembra aver avuto contatti con animali potenzialmente infetti. Un’anomalia che ha generato una serie di domande relative ad una possibile circolazione del virus non individuata nella popolazione umana.
Cosa è emerso dalle indagini fin qui effettuate?
I Centri per la prevenzione e il controllo delle malattie infettive e l’autorità sanitarie statunitense stanno esaminando attivamente molteplici indicatori durante l’attuale situazione per monitorare i virus dell’influenza A(H5N1), facendo migliaia di campioni nella popolazione, in particolare nei soggetti a rischio di esposizione. Non sono stati ancora documentati eventi di trasmissione da una persona all’altra quindi probabilmente il caso umano del Missouri potrebbe aver avuto come fonte d’infezione del materiale contaminato da animali malati. Resta un caso sotto investigazione nonostante non ci sia alcuna evidenza di una trasmissione da uomo a uomo. I conviventi hanno avuto dei sintomi ma non sono stati testati sotto il punto di vista della presenza del virus.
Un operatore del Sistema Sanitario con sintomi che aveva accudito la persona infetta da A(H5N) è stata testata ed è risultata negativa ma bisogna considerare che nell’attività di rintraccio di persone sindromiche basta anche solo un lieve raffreddore per diventare “una persona sospetta con sintomi” che è stata a contatto con un caso positivo. Prossimamente saranno eseguiti test sierologici per capire se ci sono gli anticorpi specifici verso il virus dell’aviaria ma, attualmente, sembra di essere di fronte a speculazioni giornalistiche, nel senso che non c’è nessuna evidenza che faccia pensare ad un focolaio umano perché non ci sono dati che possano confermare questa ipotesi.
Del resto, sarebbe strano che una persona così infettante in grado di dare numerosi casi negli operatori sanitari, rimasta per tanto tempo a contatto con altre persone prima di essere ricoverata, abbia generato casi solo in ambito ospedaliero; dal punto di vista della diffusione sarebbero stati molti di più. Per ora non c’è un innalzamento del livello di rischio per la popolazione anche per quelle che sono le caratteristiche del virus che non è mutato in forme particolarmente adattate all’uomo. Vista l’elevatissima presenza dell’A(H5N1) nei bovini, negli uccelli selvatici e nel pollame è ovvio che il quadro debba essere monitorato molto attentamente per quanto riguarda l’evoluzione virale che non va mai sottovalutata. Anche in presenza di sintomi lievi nelle persone che possono essere considerate a rischio, queste vanno prontamente testate ma non per questo devono essere considerate automaticamente infette.
Non ci troviamo dunque di fronte ad una situazione di emergenza che presuppone l’innalzamento delle misure di guardia.
Attualmente non ci sono evidenze di un focolaio umano inteso come gruppo di persone che si sono infettate da un caso indice. Al momento nessuno può confermarlo quindi bisogna aspettare per avere informazioni più dettagliate, probabilmente uno studio di coorte sierologico potrà chiarire quante persone possono essere state infettate, anche se i familiari o i conviventi con il paziente del Missouri potrebbero essere stati esposti a fonti comuni di infezione e non per forza si potrà parlare di trasmissione interumana.
Questa è la situazione di cui è a conoscenza anche il Centro Europeo per la prevenzione e il controllo delle Malattie Infettive e quello che sappiamo noi, è possibile che le autorità sanitarie statunitensi hanno informazioni che non hanno ancora divulgato o non possono ancora rivelare ma la situazione ufficiale è questa. Non esistono, al momento, evidenze di esposizione e di infezioni interumane.
Oltre all’estensione dei controlli e agli esami sierologici cosa potrebbero fare a suo avviso le autorità americane per avere un riscontro della situazione più capillare?
Potrebbero forse essere più incisive nella sorveglianza e nell’eradicazione della malattia nei bovini. Il sistema americano di allevamento dei bovini da latte infatti è molto complesso, si parla di milioni di capi che vengono spostati continuamente per rendere più efficiente dal punto di vista economico questa industria. Arrivare ad eradicare questa epidemia comporta una presa di posizione molto forte e dai costi elevati.
Senza dubbio il salto del virus dagli uccelli ai bovini e l’elevata circolazione del virus A(H5N1) nei mammiferi rappresentano delle tappe intermedie di adattamento del virus per l’uomo e questi eventi vanno evitati prima che sia troppo tardi. Una maggior incisività nell’eradicare la malattia nei bovini da latte favorirebbe una de-escalation del rischio.
In Europa e, nello specifico, in Italia a che punto è la diffusione dell’aviaria?
A livello continentale veniamo da una situazione di bassissima circolazione del virus cosiddetto ad alta patogenicità negli uccelli selvatici dove però è ancora presente. Ci aspettiamo, come ogni anno, un aumento dei casi in inverno con le migrazioni degli uccelli che vengono a svernare nei paesi più caldi, compreso il nostro. Tramite l’attività di sorveglianza abbiamo già trovato molti virus dell’influenza aviaria negli uccelli selvatici e identificato i primi focolai da A(H5N1) in due allevamenti avicoli, per questo sono stati ulteriormente innalzati i livelli di sorveglianza e di biosicurezza. Siamo pronti e abituati a gestire questi fenomeni e, al momento, per quanto riguarda i bovini non ci sono casi.
Quindi le autorità italiane non stanno studiando piani straordinari ma stanno continuando a monitorare la situazione?
Nel nostro Paese sono attivi piani di sorveglianza nazionali tutto l’anno che in alcuni momenti particolari vengono intensificati. Ogni regione, sulla base del rischio nei propri territori, ha messo a punto piani locali per monitorare l’avifauna e il pollame e aumentare i livelli di biosicurezza. In alcune regioni a maggior rischio si è intervenuti per ridurre la densità di specie altamente suscettibili in alcuni territori, per fare in modo che il virus possa trovare meno terreno fertile nel quale replicarsi. Un sistema attuato di concerto con le aziende avicole che si è ormai consolidato negli anni.