Il dibattito su eutanasia e fine vita è tornato – in realtà non se ne è mai andato – al centro dell’attenzione pubblica, sollevando questioni etiche, giuridiche e mediche che interessano il confine tra la tutela della vita e il rispetto delle scelte individuali. La comunità si interroga sul ruolo che lo Stato e le istituzioni sanitarie dovrebbero avere in queste scelte così delicate. L’occasione più recente è stata senza dubbio il trionfo di Pedro Almodóvar al Festival del Cinema di Venezia con il film “La stanza accanto” (“The room next door”). La pellicola da Leone d’Oro pone al centro dello schermo e dell’attenzione del pubblico l’eutanasia della protagonista, che desidera andarsene prima che la malattia vinca sulle proprie facoltà.
Solo un mese prima, i media si sono interessati alla storia di Laura Santi, una donna di quasi 50 anni affetta da sclerosi multipla progressiva da circa metà della sua vita, arrivata a Roma per l’udienza pubblica al palazzo della Consulta, dove la Corte Costituzionale era chiamata ad esprimersi (per la seconda volta) sul suicidio assistito. «Il mio corpo si sta immobilizzando sempre più, ho dolori. Mi lavano, mi nutrono, non so più se è vita questa. Sono una persona lucida, caparbia e attaccata alla vita. Ma mi chiedo: questa è vita? Chiedo solo la libertà di avere un piano B».
Un dibattito, dunque, in continua e costante evoluzione. E mentre la Corte costituzionale spinge il Parlamento a colmare un vuoto legislativo, la Pontificia Accademia per la Vita (PAV) invita a riflettere su questi temi, ferma restando – si legge nel volume “Piccolo lessico del fine vita” curato dalla PAV – «l’illiceità morale dell’eutanasia», rilanciando il ricorso alle cure palliative.
Ma come si deve invece comportare il professionista sanitario chiamato a prendersi cura del paziente?
In esclusiva su One Health abbiamo intervistato Filippo Maria Boscia, Presidente Nazionale dell’Associazione dei Medici Cattolici, che ha approfondito le implicazioni mediche e morali del fine vita, offrendo una prospettiva radicata nei valori della professione e della fede cattolica.
Eutanasia e suicidio assistito sono indicate come «gravi violazioni della dignità umana» secondo quanto si legge dal documento del Dicastero Vaticano per la Dottrina della Fede, pubblicato ad aprile, mentre una parte politica sollecita il Parlamento affinché legiferi su questi delicatissimi temi. Quale è la posizione dell’associazione che lei presiede?
Il tema del fine vita evoca da sempre il contrasto tra il valore dell’esistenza umana e la sovrana libertà individuale, incentrata sull’autodeterminazione. Da tempo sono in atto spinte incredibili per sdoganare l’eutanasia, i propositi suicidari e il suicidio medicalmente assistito.
Abbiamo di fronte molteplici violazioni della dignità umana, che hanno carattere di drammaticità, soprattutto nelle situazioni di confine e di massima vulnerabilità, della nascita, della sofferenza e della morte.
La società ci costringe ad edificare non più sulla pietra ma sulla sabbia, come se essa fosse pietra.
Sono saltati valori stabili, oscurate tradizioni e banalizzati i principi di fede.
Il vento cosmico del populismo culturale ci trascina verso vere e proprie eresie, sicché inconsapevolmente siamo costretti a procedere incontro al nostro lento crepuscolo con la convinzione che sia giusto dare la morte, sia pure per pietà.
Sono tanti i teologi atei e, paradossalmente, ogni uomo colto ritiene a buon diritto di essere un teologo.
Linguaggi confondenti, malizie e inganni ci trascinano fuori dall’ortodossia.
Si parla di dignità del morire, sostenendo eguaglianze intuitive e, codificati e ingabbiati in linee guida e algoritmi astratti, strumentalizziamo la persona e la sua irripetibilità: allora il principio della dignità umana diventa una “farsa da scena teatrale”, lasciando emergere scelte di morte per pietà.
Noi medici cattolici su questi delicatissimi temi vorremmo orientarci partendo dalle radici della fede, ritrovare la sorgente, cioè la purezza, per ridefinire la “mission” principale della nostra vita che è spirituale, che va ben oltre la competenza tecnica. Occorre riscoprire la spiritualità che è in noi e scoprire l’invisibile che è con noi ed in noi, ovvero scoprire Dio che da sempre ci è vicino.
Spesso le istituzioni, esondando dai propri compiti, ci spingono a seguire la strada dei compromessi, facendoci accettare le politiche del male minore, anziché quelle del bene.
Occorre che ci si svegli: non possiamo tollerare abusi, ma dobbiamo anche prevenire eventi impropri e lavorare per promuovere l’eubiosia, abbracciando sempre la strada del bene.
Alla precisa domanda rispondo, anche a nome dell’Associazione che presiedo, che la vita è vita sempre ed è sempre degna di essere vissuta. Noi siamo custodi della vita e per nessuna ragione possiamo ergerci a diventare padroni della vita.
Autodeterminazione, libertà ma anche deontologia e coscienza del medico. Come dunque assicurare a ciascuno una morte degna, accompagnando il paziente nella fase conclusiva della sua esistenza? Esiste un equilibrio possibile individuato nel tempo, con l’esperienza, dai medici cattolici?
Accade oggi che, in un impressionante susseguirsi di colpi di mano sul piano scientifico, legale e giuridico, siamo giunti ad indebolire il valore della intangibilità della vita umana. Abbiamo oggettivato la vita “degna” o “non degna”, “utile” o “non utile”, “disperata” o “recuperabile” e proposto aggettivazioni in nome dell’assoluta libertà dell’individuo. Credo che dovremmo far emergere le altissime sensibilità etico-sociale dei problemi, rispetto ai quali andrebbero riconosciuti e preclusi, con fermezza, i tanti nascosti abusi possibili.
Per me e per l’Associazione che presiedo il diritto alla vita va tutelato sempre al massimo livello, soprattutto quando ci si trova dinanzi a persone deboli e vulnerabili che attraversano percorsi difficili di sofferenza.
Le questioni quale il diritto a morire con dignità, per invocata pietà, coinvolgono problematiche di ordine medico e giuridico, che meritano di essere affrontate con molta prudenza perché, a mio avviso, nascondono inquietanti cambiamenti della nostra cultura, che implicano la perdita del più essenziale fra i diritti umani, che è quello del diritto alla vita.
Occorre grande coraggio e un forte shock che ci risvegli!
Occorre anche che l’autodeterminazione del cittadino e l’autodeterminazione del medico confluiscano senza scontrarsi, perché entrambe simmetriche, intangibili e degne di rispetto.
Il Codice Deontologico dei Medici all’art. 17 recita: “Il medico, anche su richiesta del paziente, non deve effettuare né favorire atti finalizzati a provocarne la morte”, né interrompere terapie di sostegno vitale, quale l’idratazione e l’alimentazione artificiali.
Questa precisa disposizione è stata integrata da innovativi indirizzi applicativi ai sensi di una sentenza della Corte Costituzionale (242/19):
“La libera scelta del medico di agevolare, sulla base del principio di autodeterminazione dell’individuo, il proposito di suicidio autonomamente e liberamente formatosi da parte di una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale, affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche intollerabili, che sia pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli (sentenza 242/19 della Corte Costituzionale e relative procedure), va sempre valutata caso per caso e comporta, qualora sussistano tutti gli elementi sopra indicati, la non punibilità del medico da un punto di vista disciplinare”.
Ad onta di qualsivoglia fermezza deontologica, oggi il Medico non ha più l’obbligo irrevocabile di tutelare la vita perché questo evento, se da un lato sottintende la concezione contrattualistica dell’arte medica, dall’altro recepisce una forma di obiezione di coscienza che può essere sollevata dalla volontà del paziente.
Ora, se la facoltà del sottrarsi a precisi obblighi professionali è permessa al medico, perché al tempo stesso non la si concede alla struttura sanitaria, pubblica o privata che sia, per altro formata da medici?
Questa distorsione che desta perplessità ci lascia comunque confusi.
Secondo lei c’è una maggioranza dei cittadini che ritiene eutanasia e suicidio assistito scelte, pur nella loro drammaticità, riconducibili solo ed esclusivamente alla propria coscienza e dunque percorribili? Se sì, perché? Se no perché?
Non mi pare che su queste problematiche ci sia consenso nella maggioranza dei cittadini. Sono in molti a ritenere che la richiesta di eutanasia e di suicidio assistito vada piuttosto interpretata come una richiesta di aiuto. La maggioranza dei cittadini su questo sensibilissimo argomento non sostiene l’eutanasia quanto la richiesta di aiuto a vivere.
Ogni fragilità e ogni dolore devono essere ascoltati e accompagnati con molta prudenza, ma anche con sentita emozionalità, perché in essi è contenuto il riverbero dell’universale esperienza del soffrire.
La drammaticità e il dolore pongono domande di senso, che vanno ascoltate e non superficialmente ignorate: un corpo ammalato ancor più deve essere amato.
Non si può abolire la sofferenza abolendo il sofferente!
Decisioni di tal genere sono inaccettabili e vanno rigettate con forza. Decidere per conto di un essere umano che è meglio morire anziché continuare a vivere è un atto che dà inquietudine e rende inquiete tantissime coscienze.
L’eutanasia per pietà è un virus spietato, una ideologica e indegna visione che dilania le più delicate questioni della vita. I delitti non possono diventare diritti! Mai questo dovrebbe mai accadere!
Pensavamo che questi delitti fossero scomparsi con la caduta dei totalitarismi ma ci si sbagliava Riconosciamo che ci siamo sbagliati, perché un baratro profondo ce lo ritroviamo proprio davanti.
Dovremmo tutti svegliarci! Nessuno dovrebbe essere autorizzato a modificare o mortificare la vita nel suo dispiegarsi cronologico.
Per me, medico laico, resta fondamentale ascoltare, accogliere, dare ospitalità, agire sapientemente, consolare, medicare, bendare, lenire, sedare il dolore fisico, usare strumenti di palliazione, alleviare il dolore morale con mezzi efficaci, disponibili ma poco adoperati.
Essere medicanti, curanti, bendanti, sollevanti, confortanti, operatori per il bene comune e per la verità, interessarsi del dolore morale, del dolore psicologico, del dolore esistenziale, della solitudine, dell’abbandono, dell’isolamento e dello sradicamento è un obbligo se vogliamo mirare ad uno sviluppo umano integrale.
Occorre vicinanza, alleanza, empatia, attive azioni sociali, culturali e familiari, che mai demordano per stanchezza o sfinimento.
E’ obbligatorio che ci si chieda quale futuro vogliamo per il domani.
Cancelliamo quell’orrenda espressione medichese di “fase terminale” e del “non c’è più nulla da fare!”
Smettiamola di parametrare i giorni della fine. Nelle fasi complesse, proprio quando in molti non sanno che fare, proprio allora introduciamo la forza della “care” e diamo inizio al “tanto da fare” e a tutte le più preziose azioni di sostegno e vicinanza.
Secondo un recente rapporto del Forum delle 75 Società scientifiche dei clinici ospedalieri e universitari italiani (FOSSC) da anni, mancano almeno 100mila posti letto di degenza ordinaria e 12mila di terapia intensiva. Fra il 2019 e 2022, inoltre, oltre 11.000 medici hanno lasciato le strutture pubbliche. Diminuisce anche il numero dei nosocomi: in 10 anni ne sono stati chiusi 95 (9%). Questo quadro allarmante influisce anche e soprattutto sui pazienti in condizioni sanitarie più a rischio. Quali potrebbero essere, secondo lei, le contromisure per arginare il fenomeno?
Censimenti, studi e rapporti raccontano di un contesto sanitario in fase di trasformazione radicale che purtroppo deve far fronte alle molte differenze sul versante della salute. Il tentativo di riequilibrare il sistema in un’epoca di crisi economica ha pilotato la complessa macchina assistenziale in una direzione allarmante che genera tante esclusioni, tante orfananze, tante diseguaglianze.
La chiusura, la riduzione numerica del numero di nosocomi e di innumerevoli presidi ospedalieri territoriali sta generando molte esclusioni. Non si è tenuto presente che la nostra epoca è caratterizzata da un aumento dei bisogni sanitari e che vi è una maggiore esigenza di sperare nell’aumento di durata della vita media. Queste due variabili disattese si scontrano con la scarsità di risorse e con i deficit organizzativi.
E’ necessaria una seria e globale riorganizzazione. E’ necessario ripensare il welfare non come razionamento delle risorse ma percorrendo la strada della generatività. La logica del profitto non può governare i luoghi di cura!
L’aziendalizzazione, la razionalizzazione, diventata razionamento poco razionale, ha dimenticato l’”hospitale”. L’accoglienza, la fraternità e la giustizia, ingannata da una produttività poco efficiente, ha accettato una potatura impropria, che ha cancellato luoghi di cura efficienti, peraltro ristrutturati, perseguendo una delocalizzazione incongrua e pericolosa, non più in grado di garantire, mancando la progettualità di riconversione delle strutture di ricovero esistenti, tanti servizi territoriali, primo fra tutti l’accoglienza delle disabilità e delle cronicità a km zero.
A volte lo stile con cui sono stati operati questi tagli ha avuto un effetto di sfida e provocazione per talune popolazioni, le cui ferite, determinate da un’economia che esclude, sono profonde. Penalizzando le aree geografiche più svantaggiate e i redditi minimi le conseguenze peggiori hanno riguardato i più poveri dei poveri.
Il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) aveva il compito di modificare le chiavi di accesso ai servizi sanitari essenziali del Sistema Sanitario Nazionale e di implementare innovazione e sostenibilità, ma economie differenziate, ignorando le realtà più svantaggiate, hanno contribuito a peggiorare i dati di disuguaglianza che attualmente sono davvero scioccanti.
Si tenga conto che “di tutte le forme di disuguaglianza l’ingiustizia nella salute è la più scioccante e disumana” (Martin Luther King). Tra le ingiustizie sottolineiamo il mancato rispetto dei LEA (Livelli Essenziali di Assistenza), non per tutti garantiti o esigibili, ed anche tutte le tragiche selezioni di priorità, che le fibrillazioni politiche non hanno tenuto presente.
La soluzione è mettere in campo un dialogo che combatta le utopie antisociali e anticulturali. Occorre vigilare perché quel federalismo fiscale, sinora solidale, non vada a frantumarsi ulteriormente, per segmentazione di servizi e dislocazioni atipiche, sino a ledere l’uguaglianza dei cittadini nell’esigere un diritto costituzionale.
L’assistenza, la vicinanza al malato, l’umanità, il prendersi cura. Sono valori che da sempre caratterizzano l’operato dei cattolici e sono ancor più accentuate nel personale sanitario credente, come dimostra anche l’esperienza di successo nell’ambito del privato accreditato dall’ARIS e dalle strutture d’eccellenza che rappresenta.
Le politiche di contenimento della spesa devono essere sagge e prudenti.
Ogni essere umano ha diritto a non essere ingannato, a non essere ingabbiato in ghetti o strutture fatiscenti gestite da economia di mercato. Deve essere informato sulle sue condizioni, libero di non subire l’arroganza di una medicina che decide se devi vivere o devi morire.
Sono noti a tutti i casi di predestinati a morire nei tempi decisi da altri, da eccellenze mediche, dai soloni di turno! Altrettanto noti sono i casi in cui insperabilmente si continua a vivere, contraddicendo tante pseudo verità scientifiche.
Quell’essere umano che continua a vivere, ha comunque diritto a non essere sradicato dal suo ambiente, ha diritto alla vicinanza dei suoi cari, ha diritto a non a morire in isolamento e solitudine, ha diritto a morire in pace e con dignità nel suo letto, nella sua stanza, in quella stanza di amore e di speranza nella quale ha attraversato le traversie della vita, a volte anche senza nessun aiuto. Ha diritto a quell’aiuto psicologico e a quel conforto spirituale che sia il più rispettoso possibile della sua fede e dei suoi ideali. Ma anche alla proporzionalità delle cure e a non subire interventi sproporzionati che facciano della sua morte la prolungatissima fase del morire.
Ha ancora diritto a quei bisogni indispensabili per la vita dell’anima e che sono pari ai bisogni di nutrimento, di sonno, di calore per la vita del corpo. Ha bisogno delle sue radici multiple, ha bisogno che qualcuno tuteli la sua storia morale, intellettuale, spirituale ed è meglio se questo avviene negli ambienti nei quali lui è sempre vissuto. Accanto a questi diritti credo che l’eubiosia ci richiami ai doveri di coloro che sono chiamati ad accompagnare la vita umana nell’ultimo miglio. Che sono: rispettare la vita umana, non discriminare nessuno, continuare ad amare, operare a favore dei deboli.
Fa parte del caring, obbligarsi alla cultura del dono e della reciprocità attraverso il massimo impegno di biosolidarietà. Fa pare del caring prendersi cura con empatia e con la massima attenzione alla terza dimensione dell’uomo, che è quella spirituale e relazionale. Sedersi al capezzale, vegliare in silenzio con leggerezza, con soavità, con quel senso carezzevole, senza mai dileguarsi per la paura del dolore e dell’incapacità di stare accanto a chi muore. Restare accanto a coloro che stanno morendo significa stare di fronte al mistero: al mistero della loro vita e al mistero delle fasi finali del loro viaggio, al mistero della loro morte. Questa è la medicina dell’eubiosia, questa è la medicina che noi medici abbiamo più volte definito la medicina dei cinque sensi e che pretendiamo senza se e senza ma.
Tutti gli ospedali, e non solo quelli dell’ARIS, devono diventare luoghi privilegiati nei quali la qualità massima interseca destini di umanità e di civiltà. Gli operatori sanitari siano uomini e donne intelligenti, forti, liberi, competenti, empatici, disponibili e accoglienti.
Questa deve essere la straordinaria attività delle strutture!
Trasformiamo gli ospedali da deserti in giardini, perché questo sarà il più bel regalo da fare all’umanità sofferente.
Aboliamo le lunghe e monotone corsie. Quando si è sofferenti abbiamo bisogno di spazi esclusivi, di presenza parentale e non solo infermieristica, di medici maestri di scienza e di vita, di saggezza e di amore, guida di cammini umani e spirituali, di esperienza, disponibili all’accoglienza fraterna in un saluto e che non smettano mai di essere custodi della vita.
Vogliamo prospettive di rinascita degli ospedali in un cambio d’epoca.
E questo è tempo propizio per ricominciare!