Molte ricerche vengono condotte nei luoghi più estremi della Terra – e non solo –: pensiamo allo spazio, alle acque profonde, all’Antartide e alle montagne più alte. Non solo per scoprire le risposte fisiologiche e cognitive del corpo umano, ma il dialogo fra organi – come l’asse cuore, polmone e cervello – soggetti a condizioni eccezionali. Per studiare le differenze di genere sottoponendo uomini e donne agli stessi sforzi fisici ad alta quota, o testare nuove tecnologie in ambienti remoti. Raggiungere l’Antartide, il continente più freddo, più ventoso, più arido, con la quota media maggiore, il meno popolato e il meno inquinato e utilizzarlo come laboratorio a cielo aperto, conducendo ricerche – fra le altre – sull’inquinamento e il cambiamento climatico.
Ne abbiamo parlato con la Dottoressa Lorenza Pratali, fra i massimi esperti italiani di Medicina di Montagna e primo ricercatore all’Istituto di Fisiologia Clinica del CNR.
Dottoressa, perché molti studi e ricerche sul corpo umano sono condotti nei luoghi estremi? Pensiamo allo spazio, l’alta quota o l’ambiente sottomarino…
In questi ultimi 16 anni ho svolto studi prevalentemente in un ambiente estremo, caratterizzato dalla riduzione della pressione barometrica: la montagna. Ma sicuramente tutti gli ambienti estremi, come l’immersione in apnea in acque profonde e l’esposizione alla microgravità migliorano le nostre conoscenze sulla fisiologia umana con possibili ripercussioni anche in ambito sanitario.
L’esposizione all’alta quota causa ipossia, cioè ridotto apporto di ossigeno alle cellule e tessuti del nostro corpo, e questa è la base comune di molte patologie che fanno parte del lavoro clinico sia in caso di patologie acute sia in quelle croniche, come ad esempio lo scompenso cardiaco o il diabete. Negli ultimi anni si sono sviluppati studi anche con l‘esposizione intermittente all’ipossia a scopi terapeutici come cura di patologie sia nell’ambito cardiovascolare, metabolico e oncologico. L’altro aspetto degli studi condotti sull’adattamento acuto alla quota e al freddo in soggetti sani è quello di capire l’impatto sulla performance. Ancora, sviluppare protocolli mirati a migliorare la sicurezza delle persone che frequentano la montagna, non solo per diletto, ma anche per i lavoratori che hanno costruito la funivia Skyway a Courmayeur, o il nuovo impianto Plateau Rosà- Piccolo Cervino, così come i ricercatori presso la stazione Concordia in Antartide.
Lei è stata in missione a 3500 metri di altezza sul Monte Bianco, che presenta condizioni simili a quello che viene definito “teatro artico”. Quali studi avete condotto per capire le risposte fisiologiche e cognitive del corpo umano al freddo e all’altezza?
Un team multidisciplinare di ricercatori è stato coinvolto in una missione della scuola Militare alpina di Aosta per studiare le risposte del sistema polmone-cuore, lo stress ossidativo, il quadro infiammatorio, e le caratteristiche cognitive. Siamo stati ad Aosta (ad una quota di circa 600 metri e temperature esterne 1-5 °C), ed anche sul Ghiacciaio del Gigante (ad una quota di circa 3500 metri e temperature fino a – 20°C), in condizioni di riposo e dopo esercizio fisico intenso di almeno 2 ore in ambiente esterno.
Questa recente ricerca ha visto un gruppo trasversale di ricercatori: Istituto Fisiologia Clinica CNR di Pisa e Milano (medici, biologi, ingegneri, tesisti, specializzandi), insieme ad altri ricercatori dell’Università di Ferrara, Bologna, UniMont e Politecnico di Milano.
Il freddo, tipico dell’alta quota, viene spesso definito come “Il dio Giano”, la famosa divinità dai due volti: che cosa significa? E qual è la doppia faccia della ricaduta sulla salute?
L’esposizione al freddo di un organismo vivente causa l’ipotermia, condizione da non dover confondere con il congelamento. Quest’ultimo è un danno limitato a parti del corpo esposte al freddo: in particolare il naso, le orecchie, le dita delle mani e dei piedi. L’ipotermia ha, in effetti, una doppia faccia: può essere positiva, e in questo caso si definisce ipotermia terapeutica. Si tratta di una condizione di induzione di bassa temperatura in maniera controllata, sia come grado di temperatura che come tempo che serve a rallentare i processi metabolici di un organismo e ridurre il rischio di compromissione neurologica nei soggetti che si riprendono in seguito ad un arresto cardiaco, ma viene utilizzata anche durante gli interventi cardiochirurgici. L’ipotermia per cause di solito accidentali può essere invece una causa di morte per arresto cardiaco.
Alta quota, cuore-polmone e cervello: quali sono gli effetti nascosti dell’altezza su questi organi?
Con l’altitudine c’è una riduzione della pressione barometrica e questo causa una riduzione della pressione parziale dell’ossigeno, con conseguente riduzione del contenuto di ossigeno: ipossia. L’esposizione alla quota è causa quindi di ipossia ipobarica.
L’ossigeno è un elemento fondamentale per tutte le cellule ed è per questo che l’essere umano ha dei “sensori” localizzati a livello della carotide: questi segnalano quando il valore dell’ossigeno del sangue si riduce e sono – allora – necessarie delle risposte per migliorare l’apporto di ossigeno a tutte le cellule. Ecco che, dopo pochi secondi, si realizza un aumento della frequenza cardiaca e, quindi, della portata cardiaca, e immediatamente dopo l’aumento della frequenza respiratoria. Queste risposte fisiologiche migliorano la condizione di ipossia dovuta all’ipobaria, ma i valori di ossigeno nel sangue risultano comunque inferiori rispetto a quelli presenti a livello del mare. C’è una grande variabilità in queste risposte e dipende da molti fattori: esercizio fisico intenso, genetica, assenza di un precedente acclimatamento, preesistenti patologie croniche o presenza di malattie acute. Il nostro corpo quindi si trova in bilico tra fisiologia e patologia. Anche i soggetti che sembrano non avere particolari problemi durante il soggiorno in quota, in realtà, se studiati, possono evidenziare delle alterazioni di funzione di differenti organi non presenti a livello del mare.
Può farci alcuni esempi?
A livello cerebrale la risposta iperventilatoria compensatoria causa perdita della CO2 (alcalosi respiratoria) responsabile di una vasodilatazione con possibile edema di vario grado, che è la causa di uno dei sintomi tipici all’arrivo in quota: la cefalea. Lo stesso accade, ad esempio, a livello dei vasi polmonari, dove invece l’ipossia causa una vasocostrizione con conseguente ipertensione polmonare e possibile stravaso di liquidi nell’interstizio con il quadro di edema interstiziale polmonare. Questo tipo di risposta è stata oggetto di un mio studio molti anni fa (2008) durante un trekking in alta quota nella valle del Khumbu Nepal. Questo lavoro ha dimostrato che anche in soggetti sani che non hanno sintomi si sviluppa edema interstiziale polmonare durante il soggiorno a quote superiori ai 3000 metri. Quando l’organismo non riesce ad adattarsi all’altezza, si manifestano le malattie acute di alta quota.
Un tema di grande attualità, legato anche agli ambienti di montagna, è quello della telemedicina: perché è importante implementare le strumentazioni per la telemedicina?
La telemedicina si definisce “Curatio sine distantia e tempora” e sta diventando un sistema aggiunto di gestione dei pazienti, con particolare importanza per coloro che vivono in ambienti remoti o che hanno difficoltà a muoversi da casa. La pandemia Covid è stata determinante in tutto il mondo per sviluppare in maniera più strutturata la telemedicina.
Alcuni anni fa sono stata coordinatore per il mio istituto di un progetto europeo transfrontaliero fra la Regione Valle d’Aosta e le Regioni confinanti, quella francese e quella svizzera, intorno al Monte Bianco. Si tratta del Progetto e-Rés@mont, pensato da noi ricercatori per ridurre lo spopolamento della montagna e migliorare i servizi sanitari anche per i turisti che frequentano anche le quote più alte. Abbiamo progettato una piattaforma che permetteva una televisita e/o un teleconsulto con l’ospedale di Aosta. La piattaforma è stata poi posizionata in alcuni rifugi di quota moderata di circa 2500 metri (come il Rifugio Arbolle) e di alta quota attorno ai 3500 metri (come il rifugio Mantova e il rifugio Torino), in un distretto sanitario nella valle di Cogne in estate e in 5 centri traumatologici delle stazioni sciistiche in inverno. La sperimentazione ha permesso di testare la piattaforma anche in zone dove la connettività non è sempre costante, ha fornito assistenza sia di base, ma anche specialistica a turisti e abitanti in montagna senza doversi recare in ospedale, e ha, inoltre, evitato chiamate inappropriate dell’elisoccorso, con un notevole risparmio economico e anche di minor inquinamento ambientale.
E perché questa è così importante per la Medicina di Montagna e le attività di alta quota?
La possibilità di contatto mediante telemedicina con esperti di medicina di montagna anche in ambienti remoti, come possono essere i campi base nelle spedizioni alpiniste, può rappresentare un sistema aggiuntivo di gestione di emergenze rispetto al medico di spedizione, e così anche nel caso in cui il medico non ci sia affatto. Nei casi di congelamento o di altre patologie di alta quota può essere utile una valutazione specialistica per decidere se evacuare o meno l’alpinista o le guide di alta quota.
Ci sta parlando dal Pakistan, il luogo nel quale sta facendo un corso sulla medicina di montagna e primo soccorso alle future guide di alta quota organizzato da Ev-K2-CNR. Sarà sempre in Pakistan come medico della spedizione femminile al K2 in occasione del 70esimo anniversario della prima salita assoluta italiana che fu guidata da Ardito Desio. Farete studi su queste alpiniste?
Condurremo studi sulle 4 alpiniste italiane e le 4 alpiniste pakistane che faranno parte di questa spedizione organizzata dal CAI e dalla associazione riconosciuta Ev-K2-CNR.
Il progetto sarà avviato in Italia, presso l’Eurac Research di Bolzano, dove le alpiniste saranno letteralmente studiate all’interno di una camera ipobarica di grandi dimensioni, la Terra X Cube. Ricercatori italiani e stranieri esperti del settore collaboreranno nella valutazione in aria ambiente e poi durante l’esposizione all’altezza, simulando altitudini estreme fino ad una quota di 8848 metri, sia in condizione di riposo che durante esercizio fisico. Saranno analizzate la funzionalità di vari organi, fra cui cuore, polmone e cervello, ed anche la risposta infiammatoria, lo stress ossidativo e l’aspetto cognitivo.
Perché è importante eseguire lo studio sulle donne? Quali dati pensate di ottenere e come verranno utilizzati?
Questo sarà il primo studio sulle donne in condizioni di quota simulata. Gli studi in condizioni di simulazione permettono di acquisire i dati in maniera più controllata, nel senso che tutte le alpiniste verranno studiate con le stesse caratteristiche di quota e di temperatura, in modo tale da avere dei dati omogenei. I risultati di questo studio potranno essere utili per capire, ad esempio, se l’acclimatamento alla quota o la riduzione della performance in quota dipenda – o meno – dal sesso.
Lei ha condotto delle ricerche in Nepal e collabora con la sede del CNR presso la Stazione Testa Grigia a Plateau Rosà per studiare anche l’impatto dell’inquinamento e del cambiamento climatico sulla salute: che cosa può raccontarci?
Al tempo del cambiamento climatico la ricerca in quota può dare informazioni anche per capire l’impatto delle variazioni delle temperature e dei vari inquinanti sulla salute umana. Alcuni istituti del CNR hanno posizionato laboratori climatologici e di monitoraggio di inquinanti su alcune montagne: Monte Cimone, Monte Curcio e Plateau Rosà. L’ambiente montano può essere un laboratorio per studiare soggetti non esposti a numerosi e complessi inquinanti outdoor, ma solo a specifici inquinanti prodotti, ad esempio, dalla combustione delle biomasse.
Alcuni anni fa, insieme all’ISAC CNR di Bologna e l’Università di Ferrara, abbiamo svolto uno studio finanziato dalla associazione riconosciuta Ev-K2-CNR per capire l’impatto sulla salute cardiovascolare e polmonare dei prodotti della combustione delle biomasse all’interno delle case dei villaggi rurali della popolazione Sherpa che vivono nelle valli ai piedi dell’Everest, dove non c’è inquinamento da traffico veicolare, né da industrie.
I risultati di questo studio hanno permesso di dare risposte sugli effetti dell’esposizione cronica alle polveri sottili provenienti dalla combustione delle biomasse utilizzate per riscaldare le case e per cucinare. I soggetti sono stati studiati con test mirati ad indagare la funzione cardiovascolare e respiratoria, ed è stato eseguito un monitoraggio (24 h/24 h) delle polveri sottili nelle case nel periodo di osservazione previsto.
Ne è emerso che l’esposizione a tali inquinanti indoor in maniera cronica è associato a un danno cardiovascolare e della funzione respiratoria precoce. Studi del genere sono fondamentali per aumentare la consapevolezza di come sia dannoso bruciare le biomasse sia in ambiente indoor che outdoor. In questi anni, durante i quali la crisi energetica e l’impoverimento generale hanno cambiato i consumi generali della popolazione – anche del mondo occidentale – sta aumentando l’uso della legna o del pellet per riscaldare le case.