Al via, domani, i test di ingresso per le professioni sanitarie: quasi 36mila i posti disponibili, di cui il 60% (circa 21mila) riservati a Infermieristica e Infermieristica Pediatrica.
Ogni anno sono numerosi i ragazzi e le ragazze che tentano il test. Ma non abbastanza. I posti messi a bando per gli infermieri aumentano, data la necessità di capitale umano del nostro Paese, ma i candidati calano coprendo appena i posti disponibili, soprattutto nel Nord Italia.
Perché? “La risposta affonda le proprie radici in temi molto profondi e anche datati: lo sviluppo demografico del Paese, l’aspetto economico ed il tasso di abbandono”, spiega la Presidente della Federazione Nazionale degli Ordini delle Professioni Infermieristiche – Fnopi Barbara Mangiacavalli in questa intervista rilasciata in esclusiva a One Health. Centoquarantamila gli infermieri in uscita per pensionamento previsti entro il 2033, 30mila quelli che ogni anno cercano lavoro all’estero, 30% il tasso di abbandono dell’Università.
Una professione “con poche soddisfazioni economiche, senza accesso alla dirigenza e progressione di carriera o per la quale non è previsto il cumulo di impieghi”, prosegue. “Ma i ragazzi vogliono studiare e specializzarsi”: ed è proprio per loro che Fnopi sta lavorando duramente. L’obiettivo è di rimuovere questi paletti ed introdurre corsi magistrali. Non solo.
Un’intervista a tutto tondo sul mondo della professione infermieristica, dalla formazione alle cure palliative, passando per la medicina di prossimità e la rivoluzione digitale in atto.
Gli infermieri sono e saranno sempre più una figura centrale della sanità italiana.
Presidente, si avvicina la data del test di ingresso universitario alle professioni sanitarie. Che cosa aspettarsi?
Tanto per iniziare diamo un po’ di numeri.
L’anno accademico 2024/2025 – che inizierà a breve – ha un numero di posti messi a bando, per i corsi di laurea in Infermieristica e Infermieristica Pediatrica, che sfiora i 21mila. Si tratta di una cifra rilevante. I corsi sono a numero programmato (benché nel linguaggio comune si parli di “numero chiuso”), che deriva da un lavoro fatto di concerto tra le Federazioni coinvolte (per la dinamica sulla demografia professionale), il Ministero della Salute (che certifica i fabbisogni sanitari), il Ministero dell’Università e della Ricerca (che certifica la concreta disponibilità di docenti e strutture) e le Regioni (che certificano i fabbisogni regionali).
In qualità di ente sussidiario, da anni FNOPI chiede di aumentare i posti messi a bando, poiché consapevoli che, per questioni demografiche, avremmo presto raggiunto la gobba pensionistica. Questo, di fatto e come sappiamo, non è successo: dunque, come ci attendevamo, ci siamo trovati in emergenza a causa della carenza di personale infermieristico. Negli ultimi 4 anni, fortunatamente, i posti messi a bando sono progressivamente aumentati, e siamo arrivati agli attuali 21mila. Il tema fondamentale è che, già lo scorso anno, che erano 19mila, in alcune Università, soprattutto del Nord e del Centro Italia, non sono stati coperti tutti i posti, quindi abbiamo avuto meno candidati dei posti disponibili.
Un’Italia a macchia di leopardo, dunque.
Esatto, nei territori la situazione è molto diversificata: le Università del Sud hanno avuto maggiori disponibilità di aspiranti, trovandosi così nella possibilità di fare una vera selezione, mentre il Nord no. Sulla scorta di questo problema, quest’anno è stata introdotta una importante novità: un criterio di flessibilità nelle graduatorie. Fino allo scorso anno, il candidato che non riusciva ad entrare nella sede scelta, non poteva chiedere di essere trasferito in un’altra sede: per questo anno accademico, invece, dovremmo garantire la possibilità, almeno per chi è idoneo, di poter scegliere sedi diverse. Adesso però dobbiamo porci una macro domanda fondamentale.
Prego.
Perché i posti non vengono saturati? E perché dove vengono saturati il criterio di selezione è molto basso? Si parla di una media di 1.2 o 1.3 candidati per posto messo a bando: di fatto, non c’è selezione alcuna. La risposta a questo grande quesito affonda le proprie radici in temi molto profondi e che, se vogliamo, sono anche datati: lo sviluppo demografico del Paese, l’aspetto economico ed il tasso di abbandono.
Ci aiuti a capire meglio.
Iniziamo dalla questione dello sviluppo demografico. In Italia ci sono sempre meno giovani e le generazioni che adesso scelgono il corso di laurea sono quasi la metà, in termini numerici, di quelle che sono oggi nel mondo del lavoro e che hanno circa 50 anni. Quindi, pochi giovani e non particolarmente orientati a scegliere percorsi formativi che prevedono un impegno costante 7 giorni su 7 per 365 giorni all’anno, preferendo invece percorsi nati e cresciuti negli ultimi anni (oggi esiste un ventaglio di possibilità che alcune generazioni fa non esisteva). Siamo un Paese che invecchia, addirittura il secondo più vecchio al mondo, e che, paradossalmente, ha un grande bisogno di assistenza infermieristica. Gli anziani, comorbidi e pluripatologici, necessitano di lunghi periodi assistenziali in un setting come il domicilio, le Rsa e i luoghi di accompagnamento alla cronicità e alla fragilità e non in un ospedale per acuti.
E per quanto riguarda l’aspetto economico?
Quella dell’Infermiere è una professione con poche soddisfazioni economiche: rispetto alla media dei Paesi OCSE lo stipendio italiano medio è inferiore dal 25 al 40%. A questo dobbiamo poi aggiungere il fatto che la professione non ha accesso alla dirigenza e non ha la possibilità di svolgere la libera professione, poiché ancora vige il sistema dell’incompatibilità e del cumulo di impieghi. Quest’ultimo paletto è stato parzialmente eliminato con il Decreto Bollette: si è teso, infatti, a superare provvisoriamente il cumulo di impieghi, ma senza modificare la norma. Significa che alcuni paletti normativi sono rimasti, quindi di fatto continua ad essere poco esigibile, soprattutto in alcune Regioni. Ma quest’attività permetterebbe ad alcune strutture, che particolarmente soffrono la carenza di infermieri, la copertura di molti turni.
Accennava anche al tasso di abbandono del percorso di studi.
Non è vero che il corso di laurea ha perso attrattività, ma – come spiegavo – le richieste sono pari ai posti messi a bando. Poche richieste, quindi, ed un tasso di abbandono del 30%. La causa è da ricercare in una scelta poco incline alle prerogative di alcuni o – soprattutto – perché quello che emerge è che si tratta di una professione senza progressione di carriera clinico specialistica. Il restante 70% è così suddiviso: il 45% termina gli studi nel triennio accademico, il 25% completa la formazione in un arco temporale fra i 4 e i 10 anni. Abbiamo giovani che vorrebbero studiare di più e qualificarsi in un settore specialistico. Anche le competenze acquisite in servizio non sono automaticamente e facilmente riconoscibili sul piano giuridico ed economico. Come Federazione abbiamo chiesto un cambiamento e una riflessione strutturale sia al Ministero che alle Regioni: il tema non è più convincere i giovani a scegliere il corso di laurea in infermieristica. Abbiamo bisogno non di interventi palliativi, o tampone, ma strutturali.
Quali ad esempio?
Per quanto riguarda l’attrattività e lo sviluppo di carriera, siamo alle battute finali, in una grande azione sinergica con il Ministero della Salute, il Ministero dell’Università e gli organismi ad hoc, di un percorso che preveda, dopo laurea triennale (che è abilitante), la possibilità di proseguire con 3 lauree magistrali ad indirizzo clinico specialistico. Oggi ne esiste solo una, con un indirizzo organizzativo e non molto ambito dai giovani. I sondaggi di AlmaLaurea ci dicono, però, che i giovani vorrebbero continuare a studiare seguendo un indirizzo clinico. Stiamo, quindi, definendone tre (con importanti agganci normativi nel PNRR): cure territoriali (l’infermiere “di famiglia” e “di comunità”), emergenza-urgenza (sia ospedaliera che territoriale), neonatale pediatrica. Collocandoli, successivamente, economicamente e giuridicamente in maniera diversa. E poi occorrerebbe superare definitivamente il problema del cumulo di impieghi: potrebbe aprire a un elemento di attrattività. Di fatto, non è realistico pensare che lo Stato aumenti significativamente gli stipendi nella Pubblica Amministrazione. Gli infermieri che, invece, operano nel privato accreditato hanno qualche vincolo in meno, soprattutto quello dell’esclusività.
Carenza degli infermieri: qual è la situazione del capitale umano oggi in Italia? Quale la prospettiva nei prossimi anni?
Gli infermieri iscritti all’albo nazionale sono 455mila. Non tutti sono attivi, poiché sono rimasti iscritti anche alcuni colleghi in pensione. Gli infermieri dipendenti del Servizio Sanitario Nazionale sono 270mila, 55mila sono i liberi professionisti iscritti alla cassa di previdenza, e circa 50-60mila lavorano nel privato accreditato.
La Corte dei Conti, partendo da questi dati, ha stimato una carenza di 65mila unità. Un dato abbastanza costante e che ricorre, ma che non fotografa la situazione nella sua complessità, perché statico. Se guardiamo l’Albo Nazionale e le nostre evoluzioni demografiche, mentre i medici hanno avuto una gobba pensionistica che è già verso l’uscita, gli infermieri affrontano il momento peggiore della gobba pensionistica in questo decennio: fra il 2023 e il 2033 ci aspettiamo un’uscita per pensionamento di 140mila infermieri. E abbiamo stimato un picco di uscita, intorno al 2029, di 84mila persone.
Forse occorre precisare che i posti messi a bando in Università sono circa 21mila, ma in media ogni laureiamo 11/12mila infermieri. Addirittura, negli anni del Covid, siamo scesi sotto i 10mila: essendo una laurea abilitante, l’insegnamento clinico (il cosiddetto “tirocinio”) è elemento determinante per poter arrivare alla discussione della tesi di laurea, e durante la pandemia molte Università non hanno potuto mandare gli studenti nelle strutture sanitarie.
In pratica, si verifica costantemente un deficit di personale…
Esatto: se pensiamo a 11/12mila nuovi infermieri all’anno e togliamo, per sopraggiunti limiti di età, circa 13/14mila, ogni anno siamo in deficit. E aggiungiamo anche il decennio della gobba pensionistica. Il numero che risulta è significativo. Facendo, poi, un paragone con la media OCSE, che conta 9,5 infermieri ogni mille abitanti, noi siamo ben sotto a questo dato, con i nostri 6,6. Se volessimo portare alla media OCSE il numero degli infermieri, dovremmo fare un’iniezione di 150/220mila colleghi. Considerando l’età media dell’Italia, il numero aumenterebbe ancora. Ed abbiamo anche un altro paradosso: mediamente, ogni anno, sono circa 500/600 gli infermieri che decidono di andare a lavorare all’estero. Oggi i colleghi formati in Italia (ciascuno di loro è costato al Paese circa 30mila euro a ciclo di studi) e poi espatriati sono 30mila. La spesa è esorbitante. E per questo poi dobbiamo fare accordi con altri Paesi per reclutare infermieri stranieri. È un circolo vizioso.
La carenza di personale è tipica del Nord Europa e del Nord del mondo. Gli infermieri che arrivano da Paesi in cui c’è abbondanza di professionalità non è detto poi che scelgano l’Italia, più orientati invece a preferire luoghi in cui è garantito un riconoscimento delle competenze specialistiche, la possibilità di progressione di carriera e altro.
Infermieri dall’estero, quali le proposte di FNOPI?
Ciò che abbiamo chiesto è, da un lato, di poter ragionare su un reclutamento etico: da un lato, non depauperare Paesi che hanno bisogno di avere determinate competenze, dall’altro poter guardare a Paesi che hanno un percorso formativo sovrapponibile a quello italiano, validato a livello europeo (dato il meccanismo della libera circolazione), con determinati parametri sulla formazione, e che ci sia una formazione linguistica. Non siamo chiusi nei confronti della possibilità di accogliere colleghi dall’estero, l’importante è creare però delle condizioni per cui possano poi tornare nel proprio Paese, così come i nostri verso l’Italia, e arricchire vicendevolmente i Sistemi Sanitari.
Ma questa non deve essere l’unica soluzione fattibile.
Cosa proponete?
Ragionare sullo sviluppo di figure che, in qualche modo, entrino a far parte delle équipe assistenziali, come il “nursing assistant” anglosassone, un’evoluzione dell’operatore socio-sanitario, affiancando l’infermiere per l’assistenza di base.
Vorremmo che in ogni agenda politica istituzionale ci fosse il tema della carenza degli infermieri: deve diventare task-force istituzionale.
Dal punto di vista istituzionale come lo stiamo affrontando?
Con palliativi e ricorsi, senza contare che ancora stiamo subendo le normative della pandemia sull’ingresso in Italia di professionisti stranieri in deroga a tutti i requisiti, non iscritti all’ordine e di cui si perdono le tracce. Da parte nostra, lavoriamo e assicuriamo i Lea tramite il ricorso allo straordinario: nel 2022 sono state fatte dagli infermieri italiani 10 milioni di ore di straordinario, remunerate circa 22 euro l’ora. Non si può pensare che il SSN possa continuare a reggere, con infermieri in numero sempre minore, più stanchi e usurati, senza contare che non è stato riconosciuto il lavoro usurante della professione, a rischio di continue violenze e aggressioni. E con infermieri, o presunti tali, stranieri presenti nelle nostre strutture con un titolo in deroga.
Infermiere del futuro: quali le sfide della professione anche rispetto all’integrazione con tecnologia. Pensiamo, ad esempio, al ricorso all’AI?
È un tema strategico su cui stiamo riflettendo molto, grazie ad un gruppo di lavoro che partecipa a tavoli istituzionali. Siamo convinti che la sanità digitale e la tecnologia possano contribuire a migliorare la presa in carico e la continuità del servizio. Siamo, però, anche consapevoli che possa essere un ulteriore elemento di disuguaglianza: c’è un tema di fragilità tecnologica e digitale nel Paese, dall’anziano alla persona disabile fino ai fragili. Dobbiamo, quindi, evitare che la digitalizzazione possa creare ulteriore disuguaglianza. In questo senso l’infermiere “di famiglia” può essere un facilitatore di questi processi.
Come Federazione abbiamo elaborato un documento sulla sanità digitale che contiene 4 concetti: la fragilità digitale; lo sviluppo nelle competenze relazionali e digitali, per tutti i professionisti, a partire dalla formazione di base; gli infermieri come educatori e promotori di queste competenze nell’assistito e nel caregiver; quello che abbiamo definito “l’ultimo miglio”, cioè la casa del paziente, il primo luogo da cui ha inizio la presa in carico. Il PNRR dice che la casa è il primo luogo di cura. Abbiamo una prospettiva epidemiologica di un paziente anziano sempre più solo, con sempre meno caregiver, quindi abbiamo bisogno di fare in modo che la casa sia sempre connessa, che il malato o sia supportato o possa essere monitorato, consultare i professionisti mediante la sanità digitale. Siamo, quindi, assolutamente favorevoli, ma con questi paletti.
La sanità digitale può facilitare la prossimità, la revisione e l’innovazione dei modelli organizzativi, il dialogo fra le professioni, la multidisciplinarietà, divenendo un terreno di confronto importante per tutte le professioni sanitarie ed il sistema.
Il Vaticano apre alle cure palliative: quale il ruolo degli infermieri?
In Italia, oggi, abbiamo circa 550mila persone che hanno bisogno di cure palliative, fra adulti e bambini. Di questo più di mezzo milione di nostri cittadini, fra i 180 e i 200mila hanno anche manifestato bisogni complessi, quindi la necessità di una presa in carico globale. Il termine “palliativo” significa “togliere il dolore”: comprende le cure di idratazione, nutrizione e supporto psicologico. È un tema che deve essere, quindi, affrontato in maniera multidisciplinare. Il Ministero della Salute, nei suoi report, ci dice che ogni persona assistita nel proprio domicilio ha mediamente 24 ore di assistenza, di cui 17 svolte da infermieri: questo ci dà una chiara indicazione di quello che è il ruolo e il coinvolgimento della nostra professione. Il tema, anche in questo caso, è la carenza: sono circa 1500 gli infermieri impegnati nelle cure palliative, ma ne servirebbe il triplo. Per noi, il tema è importante anche dal punto di vista etico e valoriale, al punto tale da averlo inserito nel nostro codice deontologico. Abbiamo molto apprezzato le parole di Papa Francesco, quando nell’udienza dell’8 agosto ha detto che “è necessario accompagnare alla morte ma non provocare la morte”.
Che cosa significa, per l’infermiere, “accompagnare alla morte”?
È un imperativo morale che ci portiamo dietro fin dal primo giorno di formazione. I momenti di passaggio sono importanti, e in questo “accompagnamento alla morte” c’è il rispetto della dignità della persona e dei suoi familiari in ogni manifestazione. Siamo presenti e consapevoli che questo tema non possa essere affrontato in maniera unidisciplinare. Con le disposizioni anticipate di trattamento – la Legge 219 – avevamo chiesto di poter avere un ruolo più da protagonista: l’infermiere è, nella maggior parte dei casi, la figura più vicina all’assistito e ai familiari in ogni ora del giorno.
La persona in fase terminale, quando non ha la possibilità di essere ricoverata in un hospice o in un reparto di cure palliative viene spesso messa in una condizione che, se vogliamo, tutela la privacy, ma è quella più lontana e più isolata all’interno dei reparti di degenza: gli unici che aprono la porta in maniera frequente e continuativa sono gli infermieri. Abbiamo, anche in Italia, un’esperienza molto rilevante di un hospice a conduzione infermieristica: questo potrebbe essere un altro elemento di sviluppo della nostra professione. La propensione a prenderci cura dell’altro e a organizzare piani di cura integrati e multidisciplinari potrebbe essere un elemento che il Paese dovrebbe valorizzare. Uno dei motori della nostra professione è che nessuno resti solo.
Il 14 settembre ricorre il trentennale del Decreto Ministeriale n. 739 del 1994: l’infermiere da esecutore viene riconosciuto professionista intellettuale. Che cosa ha significato?
La svolta epocale è stata dare una definizione delle funzioni dell’infermiere. 30 anni fa era un “operatore sanitario”, con una competenza, un’autonomia, una responsabilità, che agisce secondo una formazione di base (nel ‘94 iniziava la formazione accademica con i diplomi universitari), e opera attraverso un metodo, che è il processo di assistenza infermieristica. Ha superato, se non giuridicamente almeno nella sostanza, il tema storico demansionario degli infermieri risalente al 1974. È una data epocale, poi completata nella sua interezza con la Legge 42 del 1999, che ha sancito che l’infermiere è un “professionista che opera con autonomia, responsabilità, competenza, tenuto conto dei vincoli date dalle competenze delle altre professioni”.
Che cosa è cambiato in questi decenni?
Il Decreto Ministeriale è stato un tassello che ha consentito, in questi 30 anni, il perfezionamento della formazione accademica con i percorsi triennali, magistrali, dottorati di ricerca, ulteriori percorsi di specializzazione e master, che ha aperto alla formazione specialistica e a un ruolo di governo di altre figure. Ha definito, quindi, il profilo dell’infermiere che noi oggi conosciamo di professionista a tutto tondo che lavora in équipe multidisciplinare, che continua a formarsi e a fare formazione, che ha il ruolo di governare gli operatori di supporto. Una pietra miliare importante che ha consentito, in questi decenni, di costruire un percorso importante, sia dal punto di vista formativo che dal punto di vista organizzativo. Oggi abbiamo infermieri con la laurea magistrale che occupano posti di rilievo in varie strutture, fino all’apicalità. Un’evoluzione importante dal punto di vista giuridico, disciplinare, professionale.
Quali i prossimi passi per la professione?
Oggi questo profilo meriterebbe una rivisitazione. Oppure siamo arrivati al punto in cui la professione potrebbe non avere più bisogno di un profilo professionale, come il medico. La professione infermieristica ha un campo di attività e di responsabilità che è dato da ciò che acquisisce durante la formazione di base abilitante, durante la formazione specialistica e dal codice deontologico. Questi sono i parametri che delimitano il che cosa fa, che cosa può fare o di cosa dovrebbe farsi carico. Probabilmente arriveremo al momento in cui questo profilo, accompagnato da tanti anni di storia e di evoluzione, sarà pronto a lasciare il passo ad una connotazione intellettuale e professionale che è quella della autoregolamentazione.