Quello della neurochirurgia è un campo tanto affascinante quanto spaventoso.
Il cervello funge da centrale operativa, la sede in cui risiedono decisioni e sentimenti, memoria, sogni, pensieri e linguaggio, l’organo senza il quale verrebbe a mancare il respiro o il battito del cuore. La componente del nostro corpo più seducente.
Ma “c’è poco di normale nell’idea di uno che si mette lì con un bisturi e taglia lo scalpo di una persona, poi comincia a tagliare il cranio, poi apre le meningi e sguazza nel cervello di un altro essere umano”, come ha detto lo stesso neurochirurgo Alessandro Perin nel documentario di Real Time “Tutto il possibile – Vita da neurochirurghi”. Eppure, talvolta l’operazione si rivela fondamentale e vitale.
Quello del neurochirurgo è un mestiere totalizzante, che si porta dietro una responsabilità che si incolla addosso al medico, un’ombra cucita sotto le scarpe e che di notte si posa sul comodino accanto al cellulare sempre acceso. Una professione imprevedibile e difficile esercitata da donne e uomini, esseri umani con le loro fragilità, timori e paure, fallibili e perfettibili.
“Si è neurochirurghi, non si fa i neurochirurghi. E per questo farò sempre tutto il possibile per garantire ai miei pazienti la miglior qualità di vita e, possibilmente, la normalità”, ha detto in un’intervista esclusiva rilasciata a One Health il Professor Alessandro Perin, Neurochirurgo dell’Istituto Neurologico Carlo Besta di Milano specializzato nella diagnosi e nel trattamento chirurgico dei tumori cerebrali e spinali. Un innovatore, un rivoluzionario che ha fondato nel 2014, insieme al Professor Francesco DiMeco, il Besta NeuroSim Center, il primo Centro in Europa dedicato alla simulazione neurochirurgica avanzata e alla formazione di giovani neurochirurghi. Un professionista del cervello saldamente ancorato ai propri valori e conoscenze umanistiche.
“Tutto il possibile – Vita da neurochirurghi”. L’Istituto Neurologico Carlo Besta di Milano ha aperto le sue porte a Real Time per un documentario che ha raccontato la quotidianità di un’eccellenza mondiale, a partire proprio dalle storie dei professionisti e dei pazienti. Cosa significa avere fra le mani le sorti di una persona?
Nel documentario abbiamo toccato temi molto delicati. L’idea era quella di tratteggiare e intrecciare le giornate dei pazienti, che scoprono di avere una malattia grave, severa e impegnativa, con quelle dei chirurghi. Ci troviamo dalle parti opposte del bisturi, ma siamo tutti sotto lo stesso sole.
Siamo esseri umani che dedicano la propria vita alla salute di chi ha bisogno, cerchiamo continuamente di contrastare degli eventi, casuali e sfortunati, che sovvertono l’ordine naturale delle cose. Non è pensabile che una giovane ragazza o un bambino debbano morire di tumore. La morte è un evento sempre drammatico e critico. La nostra società è improntata secondo il culto della giovinezza, dell’efficienza, dell’intelligenza, della produttività. Quindi l’idea di doversi confrontare con qualcosa che toccherà a tutti mette in discussione l’intero nostro modo di pensare. Ed è un momento di crescita definitivo. Ecco cosa abbiamo voluto fare con il documentario.
Un momento di crescita definitivo con il quale si confronta quotidianamente.
Dopo questa intervista andrò in sala operatoria e sarò affiancato da uno specializzando, un giovane medico molto brillante: io so come lui vede la procedura di oggi pomeriggio, come una tacca in più sulla cintura. Ciò che gli manca – non perché non sia una brava persona o un bravo medico, ma perché giovane – è la fase della responsabilità, di sapere che in quanto medici rispondiamo al paziente, ai suoi familiari e alla società tutta della salute di quella persona.
Solo con questa consapevolezza si può svolgere un buon lavoro e ci si può definire una “brava persona”. Ma se tale componente manca, c’è il rischio di deragliare, di lasciarsi prendere da un delirio di onnipotenza, un desiderio di conquista di spazi e visibilità, di guadagni o di carriera. La sala operatoria è un dialogo fra il medico e il paziente. Due sono le cose importanti di questo lavoro.
Quali?
La prima è saper dare la giusta indicazione, capire quando si può fare del bene a un certo paziente operandolo (ci sono casi, infatti, nei quali un intervento può fare solo male), la seconda è capire quando sapersi fermare in corso di un intervento. Senza tale consapevolezza il delirio di onnipotenza – di cui parlavo e che purtroppo colpisce molti chirurghi – può divenire drammatico. Accade quando si cerca di raggiungere la perfezione di un intervento, incuranti che il paziente al risveglio non sia più quello di prima, non abbia più le sue funzioni. È ciò che mi fa più paura in uno specializzando.
Come si svolge la giornata lavorativa di un neurochirurgo?
Sveglia presto, riunione con i colleghi, giro dei pazienti e sala operatoria.
La mente è sempre concentrata. Non puoi dimenticare che sei proprio tu ad avere il quadro completo e la responsabilità dei pazienti. Devi possedere abilità tecniche e non solo: gestione di un gruppo, ma soprattutto gestione dello stress, in primo luogo il tuo. Quando in sala operatoria si verifica un problema, sei in mezzo ad un gruppo, è vero, ma sei solo, non puoi far trasparire la tua sensibilità, fragilità, i tuoi dubbi e le tue paure, ma mantenere i nervi saldi. Se perdi il gruppo, perdi ogni cosa, ed anche il paziente.
Non riposate mai?
Dopo un caso complesso, un’operazione durata anche 10-12 ore, non spegni il telefono e non dormi. Credo che sia giusto così: è un gesto di profonda fiducia nel fatto che siamo fallibili, che non siamo degli dei. Possono esserci sempre errori o complicanze, e devi essere pronto a intervenire. A tal proposito, mi fa molto ridere il grande dibattito attuale nel solco del politicamente corretto sulle ore lavorative e il riposo dei medici: sono tutte cose sacrosante, anzi è lapalissiano che un professionista riposato lavori meglio di uno stanco. Ma faccio una domanda: se un professionista va a casa e spegne il telefono, interrompendo ogni contatto con il reparto e con il paziente operato, è un bravo medico? Proviamo anche a declinare la domanda su noi stessi: se il medico che ha operato un mio familiare appena finito il turno di lavoro spegnesse il telefono per riposarsi, che cosa penseremmo?
Un mestiere che non è per tutti.
Credo che questo sia un lavoro diverso dagli altri e dobbiamo prenderne atto. Lungi dalla retorica e da qualsiasi prosopopea, dico che chi non ha dentro di sé queste caratteristiche non deve fare questo mestiere. Quello del neurochirurgo non è un lavoro che svolgi, ma un lavoro che sei. E se non lo sei devi fare un’altra cosa. E credo anche che la società voglia persone del genere.
Ricordo ancora il colloquio che ebbi con il professor Bottecchia: avevo 19 anni ed ero appena stato ammesso alla facoltà di Medicina. Mi chiese perché volessi fare il medico, e io risposi con delle tristi, banali e vaghe idealità sul fatto che volessi aiutare le persone. Ricordo che si inalberò parecchio, dicendomi “se lei vuole aiutare l’umanità dovrebbe iscriversi a economia”: non aveva torto. A questo mondo esistono moltissimi modi per fare del bene, questa della medicina è una nicchia che può essere fatta da certe persone, o almeno così la vedo.
Quale sarebbe oggi la risposta a quella stessa domanda fatta dal professore?
Anche oggi, banalmente, gli direi che volevo fare – e che ancora per fortuna faccio – questo lavoro perché il mio modo di essere possa contribuire alla società facendo il neurochirurgo. Sono contento di voler e di poter – oso dire – aiutare le persone che incontro con quello che faccio.
Insieme al Professor DiMeco, nel 2014 ha realizzato il Besta NeuroSim Center: simulatori neurochirurgici all’avanguardia e un rivoluzionario metodo per il training delle nuove generazioni che trae ispirazione dal campo dell’aviazione. Di che cosa si tratta?
Oggi si parla di tecnologia, intelligenza artificiale e robotica come di un qualcosa che fa parte del nostro presente, ma 8 anni fa siamo stati considerati dei folli. Abbiamo provato a mettere in piedi il Besta NeuroSim Center tra non poche difficoltà. L’idea è stata quella di imparare da chi considerassimo più bravi nel gestire un’attività ad alto rischio: i piloti e gli astronauti sono riusciti, dagli anni ’50 e ’60 ad oggi, ad avere una curva di errori (quindi, per quanto riguarda incidenti e decessi) che va a zero, rendendo un’attività estremamente rischiosa a rischio invece quasi nullo. Questo passa, ovviamente, attraverso molti fattori: lo human factor, il lavoro di gruppo, la gestione dello stress, la simulazione.
E avete voluto applicare lo stesso spirito in neurochirurgia.
Esatto: esercitarsi prima di andare ad operare il cervello di un essere umano. Abbiamo a disposizione la tecnologia, gli ultimi arrivati sono dei modelli estremamente realistici, realizzati su base acquosa, che dalla risonanza del paziente ricreano il cervello con il suo tumore. Su questi, possiamo utilizzare gli strumenti della sala operatoria, come ecografo intraoperatorio, luce a fluorescenza, microscopio. In questo modo, i giovani medici possono provare e tentare l’approccio operatorio, così che quando andranno in sala non avranno le titubanze tipiche dell’inesperienza.
La mia domanda poi è questa: a noi, come società, interessa tutto questo?
E io le chiedo: a noi, come società, interessa tutto questo?
L’alternativa è l’approccio colonialista: scegliere per se stessi il primario che opera con decenni di esperienza e lasciare i giovani sempre indietro. Mi ricorda molto un momento del film “Bianca” di Nanni Moretti. Fuor di metafora, significa che non è eticamente sostenibile che la società sia pronta ad accollarsi un certo numero di morti e di invalidi permanenti affinché un giovane medico diventi un neurochirurgo. Credo che questa posizione sia indifendibile. Quindi abbiamo deciso di cambiare il modo in cui vengono formati i giovani: la simulazione, le prove, l’abitudine rendono gli specializzandi dei chirurghi migliori.
E in questo abbiamo un seguito positivo da parte della comunità europea, che ci ha finanziato il progetto “Aeneid” (Academy for European Neurosurgical Excellence through Innovation and Diversity): portare lo specializzando dal livello zero, prenderlo per mano e fargli fare un viaggio, simbolicamente da Troia a Roma, dandogli un patentino di chirurgo offline (il “driving license to Neurosurgery”) acquisito su cadaveri, modelli di tumore che creiamo e simulatori, acquisendo così il diritto, la possibilità e il privilegio di andare sui pazienti. Non solo, uniamo l’Europa prendendo il meglio da ogni centro europeo: questi specializzandi privilegiati ruotano nei vari centri per una junior fellowship così che possano assaporare e imparare sia pratica che nozioni dai più grandi maestri. Inoltre, possono fin da subito capire quanto un particolare ambito sia o meno affine alle loro caratteristiche e propensioni.
Realtà virtuale, visualizzatori anatomici 3D e pianificatori chirurgici: quanto migliorano la formazione continua e avanzata dei giovani medici?
All’inizio nessuno voleva farlo, ed è stato difficile inserire questo cambio culturale secondo cui nessuno è mai bravo abbastanza, e perciò deve esercitarsi continuamente.
Addirittura, abbiamo sperimentato tutte le tecnologie a disposizione dei neurochirurghi anche sui pazienti per il consenso informato, ed è stata una sorpresa per tutti noi. La tradizione vuole che il chirurgo si presenti davanti al paziente spiegandogli di dover eseguire un certo intervento, senza domande ma un pizzicotto sulla guancia e tono paternalistico, perché si è sempre pensato che più si scendesse nei dettagli con i pazienti più questi venissero assaliti dall’ansia.
Noi abbiamo fatto l’esatto contrario: li abbiamo immersi nelle loro teste, con gli occhiali 3D sono entrati nei nostri simulatori e pianificatori e hanno navigato il loro cervello, capendo perché quell’intervento fosse così rischioso ma necessario, vedendo il loro tumore, comprendendo gli effetti collaterali di un errore. In questo modo, abbiamo notato fin dal principio che il paziente è coinvolto, comprende ogni cosa, pone tutte le domande di cui ha bisogno, l’ansia si riduce.
Robotica, tecnologie innovative e Intelligenza Artificiale: quanto sono importanti queste nuove componenti in neurochirurgia? E come si è evoluta la professione del Neurochirurgo?
Si capisce tutto subito in tempo reale e ha costi bassissimi, tali che queste tecnologie possono essere esportate ovunque. Insieme al professor DiMeco ci piace pensare che non siano solo per il mondo ricco ma davvero per tutti.
Dall’altro lato, si sente sempre più spesso parlare di Intelligenza Artificiale e lavori a rischio: se qualcuno – o qualcosa – è migliore di noi è naturale che, per dirla nel gergo comune, “ci rubi il posto”. Un po’ come è successo agli amanuensi, che facevano un lavoro eccezionale, ma con l’avvento della stampa i libri scritti a mano sono spariti dalla circolazione. Fa parte del progresso e qualcuno rimarrà inevitabilmente schiacciato.
Oggi, comunque, dico “viva l’umanesimo”. Cosa ci può salvare? Cosa ci può permettere di interpretare meglio questi strumenti e di governarli in un’ottica umana? L’umanesimo, la formazione classica, la conoscenza dell’uomo. È l’unico modo per governare la tecnologia ed essere noi padroni, come è giusto che sia, dal momento che si tratta di strumenti progettati da umani per gli umani.
Cosa conta di più, oggi? La vita, in quanto tale, o l’intelligenza, in quanto tale? Conta di più la vita, in quanto tale, o la produttività? Se ho un essere umano stupido e un prodotto della tecnologia intelligente, chi ha più valore? Questi temi che abbiamo sul tavolo, a pensarci bene, non fanno dormire la notte, poiché mettono in discussione ciò che siamo noi, cambiano il paradigma. E allora siamo in “2001: Odissea nello spazio” e Kubrick negli anni ’60 lo aveva già capito.
Sono domande che fanno tremare i polsi, ma credo fortemente che senza una base umanistica, filosofica, di buon pensare, buon lavorare e buon sentire, non se ne viene fuori.
Non solo innovazione. Mente umana ed empatia sono componenti che nessuna tecnologia può sostituire: quanto contano, oggi?
Empatia e mente umana contano tantissimo, e conteranno sempre più. Ci differenzieranno da prodotti tecnologici eccellenti che, per come sono ideati e costruiti, dubito riusciranno ad essere così complessi da integrare queste funzioni umane.
Quanto si possono insegnare alle nuove generazioni?
Più che insegnarle, queste devono essere imparate. La prima educazione di umanità si impara dall’esempio dei genitori nei primi 6 anni di vita e decide chi sei.
Negli Stati Uniti, per stabilire se una persona può entrare o meno alla scuola di medicina, usano una tecnica particolare: mettono il ragazzo o la ragazza in una stanza con un bambino di 3 anni, lo filmano e studiano, con il supporto di psicologi, modalità di approccio, parole e gesti, per decifrare così eventuali problemi di comportamento dell’individuo. E questo può essere utile per eliminare dal campo della medicina chi non ha quel minimo di umanità ed empatia necessario per fare questo lavoro.
Al Besta NeuroSim Center utilizziamo un modo molto pragmatico: poniamo gli specializzandi davanti a dei casi clinici con degli attori con un copione che hanno il compito di portare i giovani medici a un punto di rottura. Poi, sulla base delle reazioni delle nuove leve e sui loro errori insegniamo a risolvere la conflittualità, a capire come comprendere il paziente. È uno dei pilastri della nostra formazione e di cui andiamo più fieri.