Il Sistema Sanitario italiano ha bisogno di una trasformazione digitale. La casa deve essere il primo luogo di cura, ciascuno deve essere guidato nel proprio patient journey. Big data e Intelligenza Artificiale, ma anche ripensare a come mettere i sanitari in condizione di usare meglio il loro tempo. E’ l’era dell’approccio phygital: a metà tra il fisico e il digitale, per un miglior modello di cura. Il futuro del digitale? “Apre a molte più opportunità per le donne“.
Ne abbiamo parlato in esclusiva con la Dottoressa Elena Bottinelli, Head of Digital Transition and Transformation del Gruppo San Donato.
Come dovrebbe essere organizzato il processo di trasformazione digitale del sistema sociosanitario?
Un aspetto evidente a tutti è la difficoltà, a livello nazionale, di muoverci all’interno della sanità senza che i dati vengano condivisi fra Regione e Regione. I capisaldi del Pnrr sono, a mio avviso, molto condivisibili: puntare su una sanità che faccia muovere il paziente solo quando necessario, pensando alla casa come primo luogo di cura. Ancora, l’istituzione di un fascicolo sanitario nazionale, che permetta al paziente di condividere i propri dati con qualunque medico e ovunque si trovi. La costituzione di un sistema digitale, sia all’interno degli ospedali sia ovunque sul territorio, che faccia poi confluire i dati nel fascicolo stesso. Per avere tutto ciò, però, è indispensabile avere un linguaggio comune, dal punto di vista della interoperabilità e anche della semantica, affinché si possa dar vita ad un confronto omogeneo e reale.
Come arrivare a queste soluzioni?
Cambiando le organizzazioni e aiutando le persone, cittadini e operatori sanitari, a utilizzare quegli strumenti digitali che, se da una parte incuriosiscono, allo stesso tempo spaventano. Non si tratta solo di un’opportunità da cogliere, ma anche un grande sforzo di formazione e di change management. Non è possibile inserire il digitale e mantenere l’organizzazione così come è: quindi, dobbiamo necessariamente ripensare i processi e apportare dei cambiamenti, tenendo presente che abbiamo a disposizione soluzioni digitali. Lo sforzo ulteriore sarà quello di capire il miglior percorso per ciascun paziente e attraverso le soluzioni digitali, evitare ridondanze nel patient journey.
Ripensare i processi, dunque, per efficientare cura e servizi.
Il nostro sistema sanitario vive continui sprechi nonostante le risorse siano limitate: per fare in modo che queste siano utilizzate al meglio, è necessario un miglioramento dell’appropriatezza della cura, valutando quando c’è over treatment o under treatment. In questa direzione, bisogna creare dei percorsi multidisciplinari e multistakeholder, definendo il percorso appropriato: la parola chiave è standardizzazione. Quello della definizione degli standard potrebbe sembrare un concetto antitetico alla medicina di precisione, ma non lo è: si tratta di creare comportamenti omogenei, quindi clusterizzare il paziente il più possibile, trovando la cura giusta per ciascuna tipologia di paziente. In direzione della medicina personalizzata sarà molto utile l’Intelligenza Artificiale: i dati potenziali che avremo a disposizione saranno sempre più, dunque si renderanno necessari gli strumenti tecnologici più avanzati per poterli capire e utilizzare. È il momento in cui bisogna ripensare a come mettere i sanitari in condizione di usare meglio il loro tempo: mentre si dedicheranno alla relazione empatica con il paziente, la tecnologia potrà supportarli nelle decisioni, fungere da filtro per determinati quesiti o nel mettere ordine alle priorità, precomporre documenti.
In che modo?
Gli obiettivi della digitalizzazione dovrebbero essere colti dal nostro sistema sanitario in tempi brevi, sia per ottenere i finanziamenti del PNRR, sia per non rimanere indietro. A tal proposito, è necessario stimolare un continuo confronto fra gli stakeholder, siano essi istituzionali, aziendali o sanitari, per condividere le difficoltà, i successi e gli insuccessi, per stimolare un lavoro con metodi dell’informatica. La soluzione perfetta va cercata per approssimazioni successive, che nascono da prove sbagliate e indirizzi diversi, trovando il giusto equilibrio fra gli interessi dell’azienda, delle Istituzioni, del professionista medico, dell’operatore sanitario, del paziente, e del cittadino in genere. Il cittadino, oggi, è sempre più esigente e difficile da gestire – non sono pochi gli episodi di tensioni riportati dalla cronaca. Bisogna capire chi si ha davanti e fare in modo che chiunque abbia la possibilità di codisegnare soluzioni con un approccio olistico, one health. Tutti devono sentirsi parte di una trasformazione che chiunque deve sapere governare, al di là del ruolo nel flusso: ma serve la formazione.
Quali i nuovi modelli organizzativi per un Sistema sanitario nazionale innovativo?
La chiave è l’empowerment, cioè la consapevolezza che ci sono delle opportunità da cogliere e che dobbiamo essere artefici del cambiamento. Accanto a questo, strumenti necessari sono la formazione continua, il digitale e l’Intelligenza Artificiale. Cruciale sarà il ruolo delle donne: il digitale può offrire opportunità in più per la valorizzazione del genere femminile, perché offre maggiore flessibilità. La rivoluzione in atto garantisce opportunità per tutti, si tratta di stimolare le persone, di parlarne, di scriverne, fare cultura su questi temi.
Secondo le ultime rilevazioni, i big data crescono più rapidamente nel settore sanitario rispetto ad altri settori, e per i prossimi tre anni vedranno un tasso di crescita annuale composto del 36%. Nello specifico, nell’healthcare, si prevede che il mercato globale raggiungerà i 58,4 miliardi di dollari entro il 2026. È già stato verificato, inoltre, che è possibile risparmiare 800 milioni di euro con tali dati. Quali sono i vantaggi per il sistema sanitario? Quali gli ostacoli? Quale il modello da preferire tra il Data Lake e Data Warehouse?
Non si può sapere quale sia il modello da preferire: indubbiamente, l’enorme quantità di dati porterà una riflessione su quali mantenere e per quanto tempo, così anche sul tema del cloud. Fondamentale sarà fare in modo che ognuno si costruisca un Data Lake, inteso come piattaforma da cui i dati possano essere attinti per le esigenze di vario tipo: dalla raccolta dei dati all’attenzione ai caveat della privacy, dei consensi. I vantaggi potenziali sono molteplici, primo fra tutti l’enorme risparmio che se ne trarrà, in termine di programmazione e di appropriatezza prescrittiva: a titolo di esempio, poter decidere di dare un farmaco molto costoso alla persona idonea, senza sprecarlo. Ovviamente, ci saranno anche dei costi: costruire il database è dispendioso, così come lo è saper conservare i dati in sicurezza e creare un insieme che sia rappresentativo di tutte le tipologie di pazienti.
Quanto è invece importante l’accesso ai dati per la ricerca scientifica e l’innovazione?
È indispensabile. Ci sono ancora dei temi da affrontare, però. Quando la ricerca fa uso di dati storici, cioè di pazienti che non ci sono più, a chi si chiede il consenso? Ancora, quando il paziente firma il consenso, bisogna porre attenzione cosa effettivamente stia firmando: il consenso è solo per la cura o anche per la ricerca? E se comprende la ricerca, per quale ricerca? Poi: qual è il modo migliore e più sicuro per conservare dati passati e futuri? L’Italia, così come l’Unione Europea, è molto attenta alla tutela delle persone, ma rischiamo di rimanere indietro dal punto di vista scientifico, soprattutto nei confronti di Usa e Asia che, invece, prestano meno attenzione alla tutela dei dati, ai quali hanno un accesso indiscriminato.
Cosa aspettarci dal futuro?
Negli ultimi tempi, per far fronte a queste problematiche, si parla di dati sintetici, cioè quelli artificiali: ma quali sono le prospettive? Quanto potranno sostituire i dati reali? Esiste la garanzia del loro corretto funzionamento? In prospettiva ci sono tante opportunità e soluzioni diverse. L’accelerazione che consente il dato rispetto alle sperimentazioni classiche (quelle su pazienti fisici) comporta vantaggi indiscutibili. Inoltre, la trasparenza e la condivisione della ricerca e dell’innovazione scientifica possono consentire ai pazienti di accedere a sperimentazioni e cure di cui – altrimenti – non verrebbero a conoscenza.
Cosa si intende per “ospedale diffuso”? Quali le innovazioni tecnologiche di cui ha bisogno? Come sta operando in questa direzione il Gruppo San Donato?
“Ospedale diffuso” significa arrivare fino alla casa di ciascuno, dunque, in questo senso, far muovere il paziente il meno possibile. Che si tratti dell’ambulatorio del medico, della farmacia, della casa di comunità prevista dal Pnrr, o di una postazione digitale, il paziente non deve spostarsi se non c’è il bisogno. Per fare questo, serve da un lato una infrastruttura che faccia arrivare il digitale ovunque per evitare disuguaglianze sociali, e dall’altra servono piattaforme di connessione (le cosiddette “connected care”) in cui i servizi per l’utente sono disponibili e accessibili, per condividere informazioni e avere le risposte di salute di cui si ha bisogno. Il DM 77 ha designato in modo molto chiaro l’importanza del territorio, e tutte le strutture fisiche deputate alla cura di prossimità: a queste si devono sommare le strutture digitali, pensando a nuove connessioni fra le diverse realtà, affinché il paziente si senta guidato nel proprio patient journey.
Ha guidato alcune delle strutture sanitarie più importanti di Italia in prima linea nella lotta al Covid. Cosa ha funzionato? Cosa no?
Il punto debole, che si è reso evidente soprattutto nel momento dell’emergenza del Covid, è stato il digitale, e quindi l’impossibilità di avere accesso ai dati in tempo reale e alle soluzioni digitali.
D’altro canto, però, non appena le strutture sanitarie hanno iniziato ad avere a disposizione i dati si sono dimostrate reattive. Inoltre, c’è stata una grande collaborazione del personale sanitario tutto: sono stati rimessi in discussione i ruoli, si sono creati squadre e team multidisciplinari, ciascuno si è reso disponibile a cambiare reparto, recandosi ovunque vi fosse la necessità, medici e operatori socio-sanitari si sono aiutati a vicenda, insegnando e imparando gli uni dagli altri in modo efficace. Direi che se vogliamo trovare una nota positiva in un momento terribile, è proprio questa: la collaborazione, il senso di appartenenza a una comunità, l’aiutarsi reciprocamente. Professionalità diverse si sono radunate attorno a un unico tavolo per discutere e affrontare in modo multidisciplinare una nuova sfida.
Come Ospedale San Raffaele abbiamo fin da subito attivato un percorso di telemedicina, riuscendo a gestire sia i pazienti covid che non da remoto. Abbiamo sfruttato le soluzioni digitali esistenti o ideato appositamente per l’occasione, e hanno funzionato.
Nonostante pregiudizi atavici, la sanità Lombarda ha retto l’urto diventando un modello di gestione anche grazie all’integrazione pubblico – privato. Il Sistema misto è dunque una risorsa?
Assolutamente sì, perché garantisce equilibrio. Nel breve termine, il sistema misto ha dato le risposte che ci si aspettava, trovando così delle soluzioni che hanno consentito – come alla Regione Lombardia – di rimanere in equilibrio economico anche dopo il Covid. In altre Regioni, al contrario, il pubblico ha assorbito il privato e ancora adesso si trovano in difficoltà economica a causa di alcuni costi che si trascinano dalla pandemia. In Lombardia c’è stata una divisione di attività, senza pregiudizi o preclusioni: penso al settore privato che si è fatto carico dei vaccini, dei tamponi, e della gestione dell’emergenza-urgenza. Laddove ci sono state delle collaborazioni diverse o un uso diverso del sistema, il pubblico si è assorbito dei costi, perché non disposto a condividerli con il privato, che poi ha mantenuto nel tempo e che oggi ancora paga.
Tra le più grandi criticità nella gestione dell’emergenza pandemica si annovera senza dubbio la mancata interoperabilità dei sistemi e, dunque, l’assenza di condivisione dei dati tra le varie strutture sanitarie che prendevano in carico un paziente o che ne gestivano la anamnesi per poi somministrare il vaccino. Cosa sarebbe cambiato se il nostro Paese avesse previsto un sistema digitale più all’avanguardia?
Si sarebbe avuto accesso a informazioni che avrebbero fatto perdere meno tempo. Pensiamo, ad esempio, cosa sarebbe potuto succedere se in Cina avessero sviluppato un sistema di Intelligenza Artificiale per valutare la gravità del paziente all’ingresso del Pronto Soccorso: se tale sistema fosse poi arrivato in Italia, dai dati raccolti e grazie all’uso di un algoritmo, avremmo fatto dei passi in avanti più velocemente. Invece non c’erano né i dati né gli algoritmi, ma solo delle pubblicazioni scientifiche: tutto è stato molto più complesso e abbiamo ricominciato da capo. Un sistema digitale che consentisse un monitoraggio a casa dei pazienti sarebbe stato un ulteriore supporto, decongestionando il pronto soccorso, spostando le persone il meno possibile, gestendoli – insomma – in modo diverso da quello che è stato.
A che punto siamo oggi?
Il Gruppo San donato sta cercando di capire e di essere in prima linea nella costruzione di ambienti connessi. Avendo 58 strutture sanitarie, vogliamo capire, con un piccolo modello, quali sono le dinamiche e offrire le soluzioni digitali, ad esempio con la televisita e il supporto del paziente a casa. Vogliamo far capire, anche al nostro interno, che le soluzioni dovranno essere phygital: un mix tra fisico e digitale. Il medico, in questo, dovrà aiutare a governare il percorso del paziente, seguendolo nel tempo, suggerendo quando può restare a casa, potendo fornire al medico ciò che ha bisogno – tramite televisita o scambio di documenti. Nel nostro piccolo, partendo – comunque – da numeri importanti (5milioni di pazienti l’anno) cerchiamo di capire quali sono le difficoltà, per rappresentarle poi ai tavoli multidisciplinari, per mettere a fattor comune i problemi e le opportunità delle soluzioni tecnologiche. Faccio un esempio su tutti. Al San Raffaele abbiamo un progetto per la “digitalizzazione dell’anatomia patologica”, un’esperienza importante iniziata durante il Covid: l’aver condiviso con i clinici e i tecnici quali sono state le difficoltà del progetto porterà un valore aggiunto anche alla Regione. Ci piace essere considerati un banco di sperimentazione da condividere con le Istituzioni.
Si parla di approccio “One Health” come risorsa per prevenire future crisi sanitarie. Il nostro sistema, anche grazie agli investimenti del Pnrr, è pronto ad affrontare nuove pandemie?
Non basta. Serve, innanzitutto, la consapevolezza di cosa significhi “One Health”, a partire dalla cultura delle persone. Viviamo in un mondo sanitario sempre più specializzato, ma allo stesso tempo chiediamo un approccio olistico: è una contraddizione. Dunque, dovremmo portare questa cultura nelle università: se vogliamo che le persone ragionino in termini di “one health”, dobbiamo insegnarlo. Prendiamo, ad esempio, il tema della sostenibilità ambientale: se ne parla ancora troppo poco in sanità, non possiamo non capire che questo ha delle ricadute sulla salute. E non è un problema solo del personale sanitario, ma anche e più in generale dei produttori. Dobbiamo – tutti – alzare la testa dal problema specifico e ragionare in termini di ecosistema.
Secondo “Inspiring Fifty”, lei è tra le 50 donne più influenti nel mondo STEM. Cosa significa essere una donna di successo in un mondo scientifico (quasi totalmente) dominato da uomini?
Significa avere la responsabilità di spiegare a chi viene dopo di noi che ce la si può fare e che ce la si deve fare. Significa essere un esempio con l’obiettivo di supportare e di rendere più consapevoli le donne dei loro potenziali. Sono felice di poter essere una divulgatrice di questi temi, anche attraverso delle Associazioni di cui faccio parte, come “Donne leader in sanità” per promuovere la leadership, “Inspiring Fifty” per promuovere i temi Stem. È importantissimo che le ragazze pensino che fare un percorso stem non significa rinunciare alle proprie caratteristiche di empatia, multidisciplinarietà, flessibilità: ha degli sbocchi operativi importanti in cui portare con sé il proprio bagaglio, che ben venga ci sia, per gestire i percorsi stem in modo diverso.