Le difficoltà del SSN nell’assicurare un’adeguata assistenza alle persone anziane, in quanto soggetti fragili, sono esplose trasformandosi in evidenti punti deboli in occasione della pandemia da Covid-19. In quel momento, un’emergenza sanitaria nuova e completamente sconosciuta ha evidenziato che i servizi per i pazienti cronici sono da tempo carenti in termini di volumi e qualità, troppo spesso trascurati a favore di un approccio ospedale-centrico.
E’ necessario ripensare urgentemente il sistema dei servizi territoriali secondo una nuova prospettiva, volta ad individuare un nuovo modello organizzativo per la rete di assistenza sanitaria territoriale, rovesciando il tradizionale ospedalcentrismo che ha caratterizzato il nostro SSN per molti anni.
La riforma dell’assistenza territoriale
La riforma dell’assistenza territoriale è un elemento cruciale per permettere la riqualificazione del Servizio sanitario nazionale. Negli ultimi anni lo spostamento delle cure dal livello ospedaliero a quello territoriale ha rappresentato una delle più diffuse politiche sanitarie nei paesi europei, con l’obiettivo di migliorare la qualità dei servizi e accrescerne l’efficienza. Tuttavia, al disinvestimento nell’assistenza ospedaliera dovrebbe corrispondere un impegno crescente per riqualificare quella territoriale, in modo da offrire servizi integrati, assicurare una presa in carico multidimensionale e consentire una riduzione delle liste di attesa. Molti paesi si stanno muovendo in questa direzione, anche se si tratta di un processo ancora in corso.
In Italia il ridimensionamento della capacità degli ospedali non è andato di pari passo con il rafforzamento e la riorganizzazione delle prestazioni su tutto il territorio, con carenze più evidenti in alcune Regioni evidenziando ancora di più le differenze tra Nord e Sud.
Questo implica che gli ospedali vengano spesso sovraccaricati dalla richiesta di interventi che potrebbero essere svolti altrove, con fenomeni di sovraffollamento dei servizi di emergenza-urgenza che ostacolano la salvaguardia degli standard qualitativi delle cure e rendono più difficile la gestione economico-finanziaria delle aziende ospedaliere. La passata emergenza sanitaria ha confermato che le maglie delle cure territoriali sono ancora troppo larghe per riuscire a trattenere tutti i pazienti che potrebbero beneficiare di trattamenti presso il domicilio e/o apposite strutture non ospedaliere.
Pertanto, si afferma sempre più l’intento di potenziare il SSN allineando i servizi sanitari ai bisogni della comunità e dei pazienti, rafforzando le strutture e i servizi sanitari di prossimità.
La “prossimità” come rovesciamento della logica funzionale del sistema sanitario
Tale cambio di paradigma ruota intorno al concetto di “prossimità”, inteso come rovesciamento della logica funzionale del sistema sanitario: si tratta di portare le cure presso il paziente anziché viceversa. In questa direzione, la “sanità di prossimità”, basata su un approccio proattivo al paziente per la prevenzione e promozione della salute, con particolare riguardo alla presa in carico delle persone più fragili, costituisce un salto di qualità nella direzione di un riorientamento delle cure che possono essere erogate direttamente presso il domicilio o in strutture di prossimità, riducendo anche considerevolmente accessi impropri al Pronto Soccorso e spesso inutili “pellegrinaggi della speranza” da una struttura all’altra.
Chi come noi, da decenni, si prende cura della fragilità umana, conosce bene i complessi bisogni assistenziali di queste persone, per i quali occorre un approccio sistemico e integrato, garantendo la continuità e la globalità delle cure.
E perché non continuare a dare una risposta alla soddisfazione di questi bisogni nelle RSA, considerato che lo stesso Report Semestrale di AGENAS mette in evidenza le carenze di attivazione di quanto previsto dal DL 77?
Basti pensare che sono stati attivati 76 Ospedali di Comunità su 434. Questo ruolo non possono continuare a svolgerlo le RSA dimensionate a misura d’uomo: perché, dunque, non costruire e realizzare nuove strutture in alternativa alle residenze per anziani?
L’invecchiamento della popolazione: i numeri
L’invecchiamento della popolazione fa sì che la presa in carico dei soggetti fragili rappresenta una delle sfide più rilevanti per la sanità a livello mondiale.
I numeri non mentono: l’Istat ha certificato che negli ultimi tre anni l’età media della popolazione italiana è salita da 45,7 anni all’inizio del 2020 a 46,4 all’inizio di quest’anno. Gli over 65 rappresentano quasi un quarto della popolazione totale. I residenti fra i 15 e i 64 anni scendono al 63,4%, i bambini e ragazzi fino a 14 anni al 12,5%. Al primo gennaio 2023 il numero degli ultracentenari raggiunge i massimi livelli storici con 22 mila persone, oltre 2 mila in più rispetto all’anno precedente. L’80% dei grandi anziani sono donne.
La previsione è che nel 2041 gli ultraottantenni supereranno i 6 milioni e gli ultranovantenni saranno circa 1,4 milioni. Si tratta di una situazione demografica che, secondo l’Istat, mette a rischio la sostenibilità del sistema Paese.
Occorre pertanto cambiare gli attuali modelli adeguandoli alle esigenze contemporanee della popolazione, individuare e progettare una nuova e adeguata residenzialità in una società che, grazie ai progressi della scienza, vive di più.
La visione di ARIS
Come ARIS abbiamo una visione abbastanza chiara dell’assistenza ai pazienti fragili. La “presa in carico” della persona avviene attraverso il cosiddetto “continuum assistenziale”, nel quale rientra l’intero spettro dei servizi necessari agli over 65 in ambito domiciliare, semiresidenziale e residenziale. La novità più rilevante della proposta (legge n. 33/2023) è che tutti gli erogatori di servizi sia pubblici che privati (convenzionati o meno) siano vincolati ad offrire l’intero continuum secondo proporzioni rigorosamente commisurate alla epidemiologia delle disabilità, della non autosufficienza e delle fragilità. In altri termini, chi offre un posto in residenza deve assicurarne un numero congruo in assistenza domiciliare, nei centri diurni, in telemedicina e così via. Troppo spesso assistiamo ad imponenti fenomeni di risposte inappropriate causate dalla povertà dello spettro di servizi offerti, segnatamente in ambito delle “Linee di indirizzo generali per la riforma della assistenza sanitaria e sociosanitaria dedicata alla popolazione anziana”.
Se siamo qui ancora oggi a parlare di strategie per la presa in cura degli anziani malati cronici vuol dire che c’è ancora molto da fare per giungere al cuore della nostra missione assistenziale.
Il sistema dei servizi dovrebbe basarsi sulla centralità della persona, intesa non semplicemente come portatrice di bisogni e utente passivo, ma come soggetto dotato di risorse da valorizzare e primo riferimento fondamentale per la gestione responsabile della propria salute.
Una delle sfide della RSA è di accompagnare nel percorso di cura non solo l’assistito ma anche il familiare che se ne prende cura, garantendo una continuità in rete con il caregiver, sgravandolo dall’impegno assistenziale e permettendogli così di recuperare il ruolo di familiare nei confronti dell’anziano.
Le proposte di riorganizzazione presentate al Ministero
“Delle RSA – abbiamo scritto, tra le altre cose nel Documento – non si può certo fare a meno. Ma è altrettanto certo che sia assolutamente necessario ripensarne il ruolo istituzionale, partendo dal tema della “qualità della vita” degli ospiti, che spesso si coniuga col tema dell’appropriatezza nella loro accoglienza. Evitare i ricoveri impropri significa sviluppare il contesto organizzativo e territoriale in cui le RSA sono chiamate ad operare, ammodernare l’organizzazione dei servizi in una logica di continuità nella “presa in carico” per inserirle in un modello complessivo nel quale la “prossimità” – ovvero la vicinanza territoriale e l’appartenenza ad una rete di servizi – le renda più rispondenti alle nuove realtà, ai nuovi problemi e ai nuovi bisogni delle persone anziane fragili e delle loro famiglie”.
I centri residenziali potrebbero divenire centri multiservizi, integrati e aperti, trasformandosi in strutture cruciali per l’assistenza della persona anziana fragile nella sua interezza. E’ importante, però, che queste strutture siano messe nella condizione di svolgere un ruolo centrale per il territorio, in riferimento non solo alla residenzialità ma anche all’assistenza domiciliare e al cohousing, valorizzando le potenzialità delle RSA e consentendo al paziente di avere il conforto indispensabile per affrontare la propria condizione di fragilità.
A tal fine è necessaria una nuova visione, centrata su un cambio di paradigma che richiede, per trovare realizzazione, non semplicemente nuove strutture e nuove tecnologie, ma soprattutto maggiori risorse, sia in termini di personale aggiuntivo sia in termini di formazione e competenze che oggi non esistono. Elementi, peraltro, tutti necessari e già presenti nel PNRR, ma del tutto insufficienti se non troveranno nella valorizzazione delle risorse umane il loro indispensabile complemento. Le maggiori risorse ad esse destinate sarebbero, peraltro, ampiamente controbilanciate dai risparmi derivanti da ospedalizzazioni e istituzionalizzazioni improprie.
La legge 33/2023
La legge presenta indubbiamente aspetti positivi. Ma quanto ad investimenti da parte del Governo ancora non ci siamo. Sarebbe servito un impegno stimato in 8 miliardi. La legge di bilancio ne ha messi a disposizione 0! Qui nascono dubbi e divisioni: quali fondi alimenteranno le trasformazioni previste? La stretta e omogenea collaborazione tra Stato, Regioni e Ambiti territoriali sociali sarà efficace? Si riuscirà a far interagire realmente il sociale col sanitario? Quando arriveranno i decreti attuativi? E come arriveranno? Si è tenuto conto di quanto previsto dal Manifesto del Patto per la non autosufficienza di cui ARIS fa parte? Sarà una nuova legge 328/2000?
E come la mettiamo con il DL Concorrenza? Dove all’art. 15 è previsto che vi sia un’assegnazione di servizi previa gara pubblica? Cosa ne sarà della qualità dei servizi?
Per quanto riguarda Aris, comprendendo bene le difficoltà e le criticità, ha messo in atto una serie di interventi:
– ha elaborato una proposta di legge per prorogare i termini dell’entrata in vigore del DL Concorrenza;
– ha interloquito con vari gruppi Parlamentari al fine di sensibilizzarli sulle difficoltà di prosecuzione con un impianto normativo diverso.
Sul lato operativo, ARIS ha predisposto un modello di network che consente di realizzare una piattaforma di supporto per l’adeguamento delle strutture ai nuovi standard organizzativi e strutturali: nello specifico, curerà l’informazione, la formazione e la valutazione dei requisiti di accreditamento.
Che cosa fare?
Io credo ci sia un punto sul quale tutti concordano: la necessità di evitare l’isolamento sociale dell’anziano, senza fargli mancare l’assistenza della quale comunque ha bisogno.
Un progetto di cure a lungo termine dovrebbe riguardare i servizi che ruotano attorno alla persona a 360 gradi, dovrebbe fondarsi sulla costituzione di una vera e propria rete di solidarietà che spazi dall’assistenza domiciliare, ai centri diurni, ai mini alloggi protetti, alle comunità alloggio, alla teleassistenza e alle RSA, supportata da un congruo numero di medici e di operatori socio-sanitari formati per svolgere con seria professionalità un servizio tanto delicato e particolare come può esserlo quello dell’assistenza a persone rese estremamente fragili non solo dall’età avanzata, ma anche e soprattutto dalle numerose patologie e disabilità di cui soffrono.
Servizi non alternativi ma complementari fra loro, capaci di rispondere in maniera differenziata a bisogni differenti, avendo al centro la persona fragile nel suo continuo mutare ed il suo contesto familiare. Per scegliere quale sevizio indicare alla persona anziana o disabile si deve partire dal loro progetto di vita, dalle capacità residue, dai bisogni, dalle relazioni, dal contesto familiare, dalle condizioni economiche. Quindi partire dal bisogno, dalla domanda, dalla richiesta di aiuto e di assistenza.
In ultimo ci corre l’obbligo di soffermarci sul rinnovo dei CCNL di categoria quantomeno per adeguarli al reale costo della vita. Anche a tal proposito, abbiamo chiesto interlocuzioni ministeriali per la dovuta copertura finanziaria. Siamo, inoltre, convinti che si debba andare in direzione del contratto di lavoro unico. Stessi diritti-stessi doveri.
In questo nostro “viaggio da Nord a Sud del Paese” evidenziato da enormi disuguaglianze in termini di quantità e qualità di servizi erogati in favore dei cittadini, non possiamo esimerci nel dare un giudizio di merito sui ritardi dell’attuazione delle leggi emanate e dell’attuazione del PNRR sulla MISSIONE 6, né tantomeno ignorare l’attualissimo tema che proprio in questi giorni si discute in Parlamento riguardante “l’autonomia differenziata”.
Il termine stesso nasconde né più né meno la divisione del Paese: a seconda del luogo di residenza, un diverso accesso e una diversa esigibilità dei diritti universali, che invece dovrebbero essere garantiti a tutti secondo i criteri di uguaglianza sostanziale su tutto il territorio nazionale (come detta l’art. 3 della Costituzione).
Con l’autonomia differenziata si avrà un aumento esponenziale delle diseguaglianze tra Nord e Sud e nell’ambito dello stesso territorio, indipendentemente dalla Regione in cui si abita.