Il primo caso umano al mondo di Aviaria in un paziente in Messico, le infezioni da Dengue che, da gennaio ad oggi, hanno colpito in Italia circa 6 volte più dell’anno precedente, il Covid alle prese con la nuova variante KP.3, il morbillo che non sembra arrestare la sua corsa, arriva l’estate e cresce l’allarme per i contagi da vaiolo delle scimmie. E ora il primo episodio di Febbre Oropouche in Veneto.
La fotografia delle malattie infettive e tropicali in Italia è preoccupante. Secondo l’Istituto Superiore di Sanità (ISS), nel 2023, i casi di influenza stagionale sono aumentati del 20% rispetto all’anno precedente, con oltre 7 milioni di persone colpite. Anche le infezioni da virus respiratorio sinciziale (RSV) hanno mostrato un incremento del 15%, in particolare tra i bambini e gli anziani. Inoltre, i casi di malattie trasmesse da vettori sono aumentati del 25% dal 2021 al 2023, a causa dei cambiamenti climatici e dell’incremento della mobilità internazionale. L’ISS ha anche segnalato un aumento delle infezioni nosocomiali, con un incremento del 10% delle infezioni da batteri resistenti agli antibiotici.
Cambiamenti Climatici e resistenza agli antibiotici, il cui consumo nel nostro Paese è aumentato del 25% in un solo anno, dunque. Ma anche globalizzazione, mobilità internazionale, coperture vaccinali insufficienti, cambiamenti negli stili di vita (deforestazione, urbanizzazione), sistemi sanitari poco resilienti. Sono solo alcune delle cause che interagendo tra loro, rendono più complesso il controllo e la gestione delle malattie trasmissibili.
Con One Health abbiamo provato a comprendere il fenomeno, cercando di individuarne anche le possibili soluzioni. In questo viaggio tra le principali, più diffuse e temute infezioni che in negli ultimi anni stanno colpendo anche la nostra Penisola ci siamo fatti accompagnare dal professor Massimo Andreoni, direttore scientifico della SIMIT- Società Italiana di Malattie Infettive e tropicali e ordinario di Malattie Infettive presso l’Università degli Studi di Roma “Tor Vergata.
Quella che segue è l’intervista esclusiva che l’infettivologo ha rilasciato a One Health nei giorni scorsi.
Secondo i nuovi dati del rapporto Oms-Unicef in Europa oltre 56 mila casi e 4 morti in tre mesi per Morbillo. Numerosi gli episodi anche in Italia. Dobbiamo preoccuparci? Chi è più esposto?
Secondo i dati più aggiornati, nei primi quasi mesi del 2024 si sono registrati circa 400 casi di Morbillo. Una tendenza in progressivo aumento che dobbiamo tenere sotto controllo, considerando la letalità elevata della malattia: un decesso ogni 1000 casi. Nel corso della precedente epidemia in Italia, nel 2017, su quasi 6.000 casi abbiamo avuto cinque decessi. Senza dimenticare l’altissima diffusione e trasmissibilità che la caratterizzano: si calcola che ogni soggetto infetto ne infetti altri 16. Alta diffusione e altrettanto alta letalità la rendono una malattia da temere assolutamente. Nel mondo si contano diverse decine di migliaia di morti ogni anno a causa del morbillo.
Il vaccino funziona?
Possiamo vantare un vaccino vivo attenuato (prodotto, cioè, a partire da agenti infettivi resi non patogeni, ndr) che funziona benissimo e che deve essere somministrato intorno al 13° mese di vita. È in grado di ridurre dell’85-90% il rischio di contrarre la malattia e dovrebbe essere ripetuto all’età di 14-15 anni.
Eppure in Italia ancora l’esitazione da vaccino sembra farla da padrone.
Questa diffidenza ha causato la riduzione del numero dei bambini vaccinati. Basti pensare che dei quasi 400 casi segnalati nei primi quattro mesi, l’89% sono soggetti non vaccinati. Il massimo dell’incidenza è nei bambini sotto i cinque anni, la fascia d’età a cui non è ancora stata somministrata la prima dose. Il secondo picco lo riscontriamo tra i 15 e i 39 anni di età che dovrebbero essere già protetti dalla seconda dose di vaccino che invece non è stata fatta. Posso aggiungere infine un ultimo dato allarmante?
Prego.
Venti casi sono stati segnalati tra operatori sanitari. Ulteriore elemento di preoccupazione per un’epidemia, non solo italiana, che sta affliggendo altri Paesi in Europa. Siamo di fronte ad un allarme sanitario. Stanno tutti pagando un duro scotto dalla mancata o ridotta vaccinazione, che purtroppo si sta estendendo anche ad altre patologie.
L’Oms ha lanciato un nuovo allarme Dengue: “Da giugno rischio infezioni autoctone in Europa”. Proprio due giorni fa un’ultima segnalazione di contagio a Cervia. Quali sono i sintomi? Quali i rischi? La situazione in Italia?
Nei primi primi cinque mesi dell’anno abbiamo registrato 197 casi di dengue, tutti di importazione. Soggetti, cioè, contagiati in altre parti del mondo (principalmente Sud Est asiatico e Sud America), dove il virus circola maggiormente. Si tratta, quindi, di persone che sono arrivate in Italia già ammalate. Lo scorso anno però tra i 362 casi di dengue certificati, 82 sono stati autoctoni, cioè quando la malattia è stata contratta direttamente in Italia. Perché si verifica ciò? E’ opera della Aedes Albopictus, conosciuta anche come “zanzara tigre”, presente in Italia da anni e in grado di trasmettere la dengue. La zanzara punge una persona ammalata, ne succhia il sangue e, pungendone un’altra può trasmettere a quest’ultima l’infezione. Il nostro è dunque un Paese in cui la malattia sta diventando endemica e ciò è dovuto anche al fatto che ci stiamo “tropicalizzando”, stiamo cioè sempre più andando verso un clima tropicale che facilita la presenza di tali vettori infetti.
Non a caso la dengue non è l’unica malattia trasmessa da zanzare nel nostro Paese.
No, affatto. Da qualche anno stiamo facendo i conti anche con altri virus trasmessi dalle zanzare, penso a Zika, Chikungunya, West Nile, Malaria. Ed è dunque una questione di sanità pubblica. Se si mantiene questo clima, ormai tropicale, anche l’Italia dovrà convivere con queste malattie, classificate come febbre emorragiche, pericolose per la salute dei cittadini e difficilmente diagnosticabili nell’immediato. I sintomi, infatti, sono simili a quelli dell’influenza: dolori muscolari, cefalea, febbre. Saperle riconoscere è fondamentale, perché segnalare queste malattie vuol dire contenerne in qualche modo la diffusione.
Meningococco e Meningite: fanno registrare un alto tasso di mortalità e rappresentano una delle principali sfide globali per la salute pubblica. Sulla malattia si sono riaccesi i riflettori dopo la morte della studentessa italiana a Berlino. Quali i sintomi? La cura?
Il meningococco fa paura. Non tanto per la numerosità di casi, che in Italia rimane abbastanza limitata ad alcune decine. Siamo quasi sempre sotto i 100 all’anno, un’incidenza, insomma, di circa un caso ogni milione di abitanti. Nonostante ciò, ha un alto tasso di letalità. È prevalente soprattutto nei bambini più piccoli ma, in realtà, non risparmia quasi nessuno: la massima incidenza si ha intorno ai 20-30 anni. Anche questa è una malattia prevenibile: abbiamo degli ottimi vaccini che riescono a ridurre il rischio di infezione. La più invasiva è la Meningoencefalite che interessa il sistema nervoso centrale con la classica meningite e quindi febbre alta, vomito a getto, artrite cervicale, flessione passiva del collo, dolore muscolare. Una malattia insomma di estrema rilevanza. Insisto: pochi casi ma molto gravi e quindi più che mai consigliamo fortissimamente la vaccinazione e non solo nei primi mesi di vita.
Nella stagione primaverile ed estiva, con le vacanze e l’intensificarsi dei viaggi in Europa “c’è il rischio di un aumento dei casi di Mpox”, il Vaiolo delle scimmie.
E’ sempre stata una malattia po’ temuta. A spaventare è il pensiero che un virus molto simile a quello del vaiolo umano – eradicato nel 1980, grazie alla vaccinazione – possa ricreare focolai epidemici o addirittura una pandemia nella popolazione giovane non immunizzata, la cui vaccinazione obbligatoria venne definitivamente abrogata nel 1981. Se dunque dovesse prendere piede troverebbe una grande possibilità di diffusione. Tra il 2022 e il 2023 si sono verificati nel mondo oltre 94.000 infezioni in più di 100 paesi, e più di 180 decessi di Monkey Pox. Il Virus si trasmette prevalentemente per via sessuale e ha colpito per la maggior parte soggetti maschi. Anche in questo caso esiste un vaccino, principalmente raccomandato alle persone più esposte (territori a rischio contagio, abitudini sessuali). Si parte dalla comparsa di vescicole, simili alla varicella, ma poi può generalizzarsi e interessare anche organi e visceri al nostro interno e causare una malattia sistemica, che potrebbe diventare addirittura letale. Occorre, dunque, monitorare la situazione e impedire che si generino dei nuovi focolai epidemici.
La febbre emorragica Crimea-Congo è una patologia endemica in Africa, nei Balcani, nel Medio Oriente e nell’Asia occidentale e centro-meridionale. Quasi del tutto sconosciuta, almeno finora in Europa. Eppure, secondo l’ECDC la situazione sembra cambiare. È una minaccia per l’uomo?
Rientra nelle infezioni da febbre emorragica. E’ una malattia virale sempre trasmessa da un vettore all’uomo, in questa circostanza si tratta di una zecca. In Europa, nel 2022, sono stati segnalati quattro casi con due morti e quest’anno c’è già stato un morto in Spagna. Nonostante in Italia non si sia registrato alcun episodio, si è acceso comunque un campanello d’allarme, a testimonianza della circolazione dell’infezione. Lo ricordiamo: il possibile contatto zecca-uomo non è un evento così raro. E quindi è una di quelle malattie da tenere sotto controllo: il contagio uomo-uomo attraverso il sangue è il passaggio successivo dell’evolversi dell’infezione. Al momento, però, mi sento di rassicurare che non persiste un allarme.
Si conferma anche con questa infezione il percorso di tropicalizzazione del nostro Paese.
A causa delle variazioni climatiche, le zecche si stanno gradualmente adattando anche alle nostre latitudini. L’altro grande fattore che favorisce la comparsa di queste malattie è la globalizzazione in senso lato, in particolar modo la globalizzazione delle malattie infettive. Le persone viaggiano e si muovono in qualsiasi parte del mondo, importando ed esportando anche le infezioni. Nel caso della Febbre emorragica del Crimea Congo parliamo di una letalità intorno al 30%, uccide cioè una persona su tre.
Questo caso specifico mostra come sia sufficiente il verificarsi anche solo di un limitato numero di casi di malattia, seppur poco conosciuta, che si attiva un sistema di monitoraggio dagli organismi di sanità pubblica europei e mondiali. Un sistema che sembra funzionare.
Assolutamente sì. Prendiamo ad esempio il monitoraggio di vettori come zanzare o zecche. Siamo soliti analizzare due elementi: la presenza di quel particolare tipo di vettore e se quel vettore è infettato dal virus. Il passaggio successivo consiste nell’osservazione degli animali che possono fungere “da serbatoio”, non solo le zecche ma anche l’essere umano o altri diversi mammiferi che possono albergare l’infezione. Il primo step è dunque “vedere”: quanto sta circolando quel virus e se quel virus in qualche modo sta diventando endemico, la numerosità di casi, come si sta diffondendo, quale tipologia o se il virus si sta modificando e si sta adattando alla specie umana. Sussistono pertanto numerosi aspetti che richiedono un’osservazione molto attenta e sofisticata, indispensabile per farci trovare pronti di fronte a eventuali emergenze sanitarie. Un ruolo chiave in questa direzione lo riveste la prevenzione: i vaccini esistono e vanno somministrati al momento giusto prima che la malattia diventi virale.
Nelle ultime settimane i nuovi contagi Covid tornano a superare quota mille. Il virus circola ancora, dunque può far male ai soggetti fragili.
Il desiderio di voltare pagina da parte di tutta la comunità è evidente, però occorre non dimenticare cosa abbiamo sofferto: solo nel 2023 sono morte 10.450 persone di Covid, non con il virus ma per colpa del virus. Cifre non affatto da trascurare. Nei primi quattro mesi di quest’anno siamo già a 1.500 persone morte in Italia per Covid. Il virus continua a circolare e continuerà a farlo perché oramai si è adattato all’interno della nostra popolazione. Ad esserne maggiormente colpite in modo grave saranno i soggetti fragili. E questa situazione merita un’ulteriore osservazione.
Riguarda la vaccinazione?
Sì. Nonostante tutto quello che abbiamo detto e fatto, l’Italia resta uno degli ultimi Paesi in Europa per tasso di vaccinazione nelle persone a rischio. Recentemente l’European Center for Disease Control (ECDC) ha evidenziato come la copertura sia molto bassa negli ultraottantenni ma anche negli ultrasessantenni e ultrasettantenni. Gli over 80 vaccinati sono il 12% e questa percentuale scende precipitosamente nelle ulteriori classi di età. Per fare un paragone: nei Paesi scandinavi i fragili sono vaccinati per il 60-70%. Insomma, in Italia ci si vaccina poco e male. A tal proposito come Società scientifica di malattie infettive, ma anche come Società scientifica di igiene, abbiamo prodotto dei documenti in cui iniziamo a parlare di somministrazione stagionale. Riteniamo cioè che dovremmo comportarci con il Covid come facciamo con l’influenza: una vaccinazione ogni anno da fare nel periodo autunnale e invernale quando il virus circola in maniera più violenta, mentre nei soggetti ad alto e ad altissimo rischio si continua a consigliare la vaccinazione due volte all’anno ogni sei mesi.
Come spiega l’aumento nei contagi di questi ultimi giorni?
La ripresa che abbiamo registrato in queste ultime settimane è legata alla nuova variante, la KP.2 che deriva sempre da Omicron. Il virus continua a cambiare e non ha smesso di adattarsi. Quella in questione vanta un’altissima trasmissibilità e una capacità di sfuggire alla nostra immunità data dal vaccino, eludendo la risposta immunitaria. Dobbiamo aspettarci molti più casi ma minori ospedalizzazioni o decessi, soprattutto se la popolazione colpita è vaccinata. Non smettiamo di vaccinarci perché il siero ci protegge dalle nuove varianti e soprattutto dalla malattia grave. Il vaccino viene continuamente aggiornato rispetto alle varianti in circolazione. Chi non si vaccina commette un grave errore.
Un team internazionale di ricercatori ha recentemente scoperto una nuova malattia potenzialmente mortale legata alla nuova forma di Covid. Si chiama Mip-C ed è una diversa forma di dermatomiosite anti-MDA5 positiva. Dobbiamo preoccuparci? Come eseguire la diagnosi? E quale la cura?
Siamo di fronte a una nuova malattia, o meglio, ad una variante di una malattia che conosciamo abbastanza bene, la dermatomiosite autoimmune (provoca infiammazioni a carico dei muscoli, senso di debolezza e tipiche lesioni sulla cute, può coinvolgere anche gli organi interni, ndr). In questo caso presenta una reazione nei confronti dell’enzima MDA5, presente in diversi virus RNA, tra cui anche il Coronavirus. Si è dimostrato che questa infezione, che può essere addirittura letale quando colpisce, ad esempio, i polmoni, si verificava soprattutto in soggetti non vaccinati che avevano avuto il Covid. Premesso ciò, mi preme sottolineare come la MIP-C rimanga molto rara. Sono stati segnalati solo pochi casi e quindi non dobbiamo temere che la popolazione italiana, per il 50% colpita da coronavirus, possa svilupparla. Da ciò ci portiamo comunque a casa due lezioni.
Quali?
La prima: più si studiano queste situazioni, più se ne scoprono di nuove. Per noi scienziati è da sempre un grande stimolo. In questi anni abbiamo visto aumentare esponenzialmente le attività di ricerca e sviluppo. La seconda: il vaccino. Anche nel caso della MIP-C ha dimostrato di funzionare egregiamente. Vaccinarsi non vuol dire soltanto allontanare i rischi della malattia acuta ma sviluppare anticorpi che possano proteggere dal contagio. Non smetterò mai di ricordare quanto sia importante questa arma di prevenzione che abbiamo a nostra disposizione.
L’aumento delle temperature e il cambiamento dei modelli meteorologici stanno alterando la diffusione delle malattie trasmesse da vettori, con implicazioni significative per la salute umana e mettendo a dura prova i sistemi, come spiega l’Oms. Quali i rischi?
Abbiamo parlato prima di tropicalizzazione del nostro territorio. Questa, che può avere tanti effetti sulla salute dell’essere umano, incide sostanzialmente sui vettori. Ciò perché le zanzare e alcuni altri insetti hanno esigenze climatiche molto precise e sopravvivono meglio in situazioni ambientali in cui si registra una temperatura più alta. Abbiamo fatto numerosi esempi di infezioni che prima importavamo ma che adesso si adattano bene al clima del nostro Paese. Le temperature sono aumentate anche se di pochissimo ma in maniera sufficiente per far sì che determinati vettori, che da noi non riuscivano a sopravvivere troppo a lungo e che non erano “competitivi” con altri animali, riescano a svilupparsi meglio.
In diverse occasioni, ha sostenuto che l’antibiotico-resistenza è una vera e propria pandemia. Quali i dati del fenomeno?
Questa mia definizione viene spesso contestata da alcuni noti epidemiologi. Eppure i numeri parlano chiaro: secondo l’allarme lanciato dall’OMS, nel 2050 ci saranno 10 milioni di morti per infezioni da germi multi resistenti. Quest’anno sono decedute 1.500.000 persone per infezione da batteri multi resistenti. Sempre nell’ultimo anno 4 milioni e mezzo i morti a causa dell’infezione stessa o in maniera correlata. Nei prossimi anni sarà la prima causa di morte. A ciò si aggiunge la mancanza di strumenti adeguati per contrastare il fenomeno. I farmaci in circolazione sono delle “armi spuntate”: trovare un nuovo antibiotico in grado di controllare questa infezione da germi molto resistenti è difficile, quasi impossibile. Anche le stesse industrie farmaceutiche affrontano questa battaglia decisamente complessa sapendo di dover investire molto in luogo anche di una scarsa possibilità di ottenere risultati confortanti. Senza dimenticare la scarsa redditività dell’operazione. Se fosse scoperto, infatti, questo nuovo antibiotico dovrebbe essere utilizzato il meno possibile per evitare che perda efficacia: poter vantare un buon farmaco che uccide i germi multi resistenti vorrebbe dire cercare di usarlo il meno possibile per evitare che vi diventino resistenti.
Un cane che si morde la coda, insomma.
Ma c’è anche un altro elemento da tenere in considerazione. L’antibiotico resistenza è strettamente correlata al progresso della medicina: più le persone vivono e sopravvivono a malattie complicate grazie a terapie molto aggressive più le rendiamo fragili e maggiormente esposte a decessi causati da infezioni da germi molto resistenti.
Un quadro per nulla idilliaco. Come dobbiamo comportarci dunque?
Innanzitutto bisogna educare la comunità diffondendo le buone norme che servono a regolare la diffusione di questi germi, visto l’alto impatto di sanità pubblica che riguarda tutti. Occorre ricordare infatti che il germe multi resistente può manifestarsi immediatamente nei pazienti gravemente malati ma può anche essere trasportato da persone apparentemente sane che si accorgono dell’infezione, magari letale, solo quando diventano particolarmente fragili. Dobbiamo dunque utilizzare tutte le pratiche e le misure in grado di proteggere efficacemente noi stessi e gli altri. Per ricordarne solo alcune: lavaggio frequente delle mani, utilizzo regolare della mascherina. Bisogna educare poi il personale sanitario al corretto uso degli antibiotici, somministrandoli in maniera corretta e con i tempi giusti. Bisognerebbe inoltre utilizzare anche all’interno delle strutture sanitarie tutti gli accorgimenti necessari per il contenimento delle infezioni: isolamento, monitoraggio e sanificazione ambientale. E infine bisognerebbe prevedere incentivi per le industrie farmaceutiche a continuare a fare ricerca in questo settore per non rimanere indietro e disarmati.
Ma per bloccare questi germi possiamo agire solo con gli antibiotici? Non esistono percorsi alternativi?
Al contrario. Esistono tante altre strade diverse che possono essere intraprese e che sono in grado di uccidere i batteri. Penso ai virus fagi, virus dei batteri in grado di debellarli in maniera altamente specifica. La terapia fagica, che si conosce da tanti anni, la stiamo sperimentando in alcuni pazienti con buoni risultati. Le derivazioni sono innumerevoli. Siamo alle prese con un problema multifattoriale enorme. Pertanto occorre affrontarlo in maniera globale e con grande “buona volontà” da parte delle istituzioni.
La ricerca e l’innovazione stanno facendo passi da gigante nel ramo sanitario presidiato dalla vostra società scientifica. Quali le ultime frontiere terapeutiche per le malattie infettive?
Senza dubbio è prioritario avere a disposizione nuove strategie terapeutiche per cercare di sconfiggere le malattie infettive, puntando sulla prevenzione. L’esempio dell’AIDS è emblematico: abbiamo fatto passi avanti incredibili con farmaci e vaccino e oggi siamo in grado di prevenire l’infezione.
Penso poi ai farmaci long acting cioè i farmaci che rimangono nel nostro organismo per lungo tempo e che sono già utilizzati in terapia ma lo saranno sempre più anche nella prevenzione dell’infezione. È un campo fortemente innovativo e di grandissimo interesse e sviluppo. Anche la diagnostica delle malattie infettive sta diventando un aspetto estremamente rilevante. Disponiamo di test sempre più sofisticati e in grado di individuare con precisione la tipologia di infezione.
Ci può fare un esempio pratico?
Le malattie respiratorie. Sono l’infezione più comune in assoluto e anche quella che determina più morti. Avere un test diagnostico che ti permette di sapere se hai una forma virale o batterica rappresenta la svolta. Qualora infatti il medico riscontrasse la viralità dell’infezione non prescriverebbe l’antibiotico che, come è noto, non è efficace contro i virus, non alimentando così l’antibiotico-resistenza. Direi che anche solo questa applicazione sarebbe sufficiente per comprenderne l’utilità.
Tra le caratteristiche che non dovrebbero mancare a questi test, mi permetto di aggiungere la rapidità.
Ci sono delle infezioni, penso alla Sepsi, in cui la scelta dell’antibiotico è minore. Ogni ora che passa aumenta il rischio di morte. E quindi avere test diagnostici ultra rapidi e ultra sensibili, capaci di dare la giusta impostazione al trattamento, diventa estremamente rilevante e decisivo. Quanto detto fino ad ora però deve accompagnarsi all’evoluzione del ruolo dell’infettivologo: più presente in termini di prevenzione e soprattutto più presente sul territorio. Ad oggi l’infettivologo lo troviamo all’interno degli ospedali ma se aspettiamo che la nuova malattia arrivi nei nosocomi il danno è già stato fatto. Serve cioè una figura che presidi il territorio e si occupi delle malattie croniche derivanti da malattie infettive.
Fra le preoccupazioni principali in questo momento c’è anche il virus dell’Aviaria. Forse un decesso in Messico, ma sicuramente un primo contagio in Australia ed anche in India (in questo caso, si tratta di un bambino di 4 anni). Il virus sta mutando e adattando: dobbiamo preoccuparci?
Quello che stiamo vivendo in questo momento è il salto di specie. Facendo una cronistoria di quanto è successo, in un primo momento c’è stato un contagio dai volatili selvatici a quelli domestici, poi al maiale e alla mucca, animale molto vicino all’essere umano e molto utilizzato per una serie di prodotti derivati dalla mucca stessa, tra cui – appunto – il latte. A questo punto, abbiamo iniziato a porci il problema dell’ulteriore salto di specie: dal mammifero all’essere umano. Abbiamo imparato che il virus si trasforma e si adatta, non solo infettando un primo uomo ma passando da uomo a uomo.