Costanza Rizzacasa d’Orsogna, laureata in scrittura alla Columbia University, scrittrice e giornalista, collaboratrice del “Corriere della Sera” e di “Sette”, autrice della fortunata serie di libri per ragazzi con protagonista il gatto Milo, si occupa in modo sistematico di disturbi alimentari. Lo ha fatto nel romanzo “Non superare le dosi consigliate” (Guanda) in cui – attingendo alla sua storia familiare – affronta i temi della bulimia e del binge eating, il disturbo che spinge ad alimentarsi compulsivamente. E lo fa ogni settimana sulla rubrica “Anticorpi” che tiene sulla rivista “F”, dove risponde ai dubbi dei lettori.
Nell’ultimo numero, uscito in occasione della Giornata mondiale dei disturbi alimentari, il 15 marzo, ha trattato l’ortoressia: l’ossessione per il cibo sano che si trasforma in schiavitù. Ma come si distingue il semplice salutista da chi ha un disturbo alimentare?
È una domanda che si pongono in molti. Ho voluto parlarne nel giorno del Fiocchetto Lilla (15 marzo, ndr) perché è giusto tenere alta l’attenzione su anoressia e bulimia ma bisogna anche occuparsi di nuovi comportamenti e disturbi che emergono col passare del tempo. Anche il binge eating è stato studiato in ritardo, eppure è uno dei disturbi alimentari più gravi, diffusi e pericolosi. Sull’ortoressia sono in corso vari studi, con l’obiettivo di inserirla nel manuale DSM-5 (il Manuale Diagnostico Statistico dei Disturbi Mentali) che contiene la codificazione di queste malattie.
Ne soffrono, dati alla mano, 300mila persone in Italia. Secondo la psicoterapeuta che ha scritto alla sua rubrica è un “male moderno”. È così?
Sì, è un disturbo dei nostri tempi in cui fioriscono equivoci e sottovalutazioni. Alimentarsi bene, in modo sano, è un’importante priorità, il problema è l’estremizzazione. Non si può decidere cosa escludere dalla dieta sulla base di assunti non scientifici, magari guardando su Instagram. L’ortoressia si affianca alla germofobia, la paura dei germi che è cresciuta in modo esponenziale durante il Covid e poi è rimasta. Ed ha una differenza fondamentale rispetto agli altri disturbi alimentari: non c’è, nella stragrande maggioranza dei casi, un problema di peso, quindi di quantità del cibo che si assume, ma di qualità. I tre aggettivi chiave per il cibo diventano: puro, pulito, sano.
Che cosa c’è alla base di un comportamento che diventa ossessione?
C’è anzitutto un senso di panico. Ad esempio, quando si legge che l’acqua del rubinetto è piena di pesticidi o, come è successo negli Usa, che qualcuno ha fatto lavaggi nasali con quell’acqua e gli si è sviluppato un parassita nel cervello. La reazione è di spavento, di terrore. Sia chiaro: è molto importante cercare di evitare Ogm, coloranti, additivi, e difatti i Paesi più avanzati in questo senso hanno delle norme severe. Ma l’ortoressico arriva all’ossessione eliminando nutrienti e interi gruppi di alimenti che servono al corpo per funzionare: la prima conseguenza è la malnutrizione. Se togli i latticini non hai calcio, se elimini tutti gli zuccheri rinunci ai fondamentali carboidrati, e così via. Anche il vegano elimina i latticini, ma sa che deve sostituirli con altri alimenti ricchi di calcio. L’ortoressia non è uno stile di vita, è un disturbo.
Fa parte del disturbo anche la mania del controllo?
Assolutamente sì. L’ortoressia si lega ai disturbi ossessivo-compulsivi, agli alti livelli di perfezionismo e alla mania di controllo. In più siamo continuamente bombardati da notizie, l’attenzione diventa malsana. Si controllano per ore gli ingredienti delle etichette al negozio, si va nel panico al buffet o al ristorante dove manchino i cibi considerati sani e puliti.
C’è pericolo di isolamento sociale per chi ne soffre?
Sì perché si diventa intolleranti con gli altri oltre che con se stessi. L’ortoressico si sente assediato, circondato da cibi “impuri”. Ha timore di ammalarsi, non può fare tante attività per la stanchezza mentale. Diventa difficile da invitare e da sopportare. E c’è un ultimo sintomo: un certo senso di superiorità morale, come a sottintendere che lui si prende cura della propria salute meglio degli altri. Invece, c’è chi per la malnutrizione finisce dritto in ospedale.
Nel suo libro “Non superare le dosi consigliate” ha raccontato il suo rapporto difficile con l’alimentazione. Da dove veniva?
Ho sofferto di bulimia per tutta la vita, con ricadute nell’anoressia, e dopo i 40 anni di binge eating da cui sono guarita. Di quest’ultimo si parla con molta superficialità: non è un’abbuffata di panettone a Natale. Sono le abbuffate sistematiche: anche 8-9mila calorie in un giorno rispetto alle 2 mila raccomandate. Succede quando, ad esempio, si recupera dalla spazzatura di casa il cibo appena buttato (nel tentativo di frenarsi, perché il binge eater ci prova), perché tutto il resto è finito, quando si fa la spesa settimanale e la si consuma per intero nel parcheggio del supermercato. Io mangiavo la pasta fresca ancora cruda, cosa tra l’altro pericolosa. Ecco, bisognerebbe sempre parlare di “disturbo del binge eating” perché una terminologia corretta aiuta molto.
Nell’epoca dei social, dei like e degli influencer, quanto conta per i disturbi alimentari lo sguardo degli altri e della società? Quanto influisce il body shaming?
I commenti sul peso e sul corpo altrui sono sempre fuori luogo. Detto questo, lo sguardo degli altri da solo non basta a causare un disturbo alimentare, se non si è in qualche modo predisposti. Mia mamma, che era anoressica e bulimica, quando avevo 6 anni ed ero un po’ ingrassata mi rimpinzava di lassativi per farmi dimagrire, mi spingeva a vomitare. Diventare io stessa bulimica e anoressica abusando di lassativi e vomitando per oltre quarant’anni è stata una naturale conseguenza. Anche quando sono mossi da buone intenzioni, i commenti sull’aspetto altrui andrebbero evitati: un soggetto con un disturbo alimentare inevitabilmente distorcerà anche un complimento. Ecco che il nostro commento diventa pericoloso. E magari qualcuno è dimagrito perché ha una grave malattia. Come viceversa è sbagliato credere che un obeso si abbuffi per forza, può dipendere da tanti fattori: dalla genetica, dall’essere in cura con psicofarmaci…
Si può guarire dai disturbi alimentari? E come?
Serve un intervento multidisciplinare da parte di psicoterapeuti e nutrizionisti, ma certamente la prima cosa è una terapia psicologica che vada alla radice del problema. Anche le terapie di gruppo aiutano moltissimo, perché ci si confronta con altri, anche chi soffre di un disturbo diverso dal nostro, e ci si sente meno soli: fratelli e sorelle nei disturbi alimentari. Il rimedio non è una pillola e la strada è lunga. Chi ne esce avrà comunque nel cibo il suo tallone d’Achille, la sua valvola di sfogo in momenti di stress, proprio come l’alcol per gli alcolizzati. Si guarisce – a me è successo – e va detto, ma bisogna fare attenzione alle ricadute: devi conoscere la tua vulnerabilità.